Si tutela la vita
non la morte

Il governo italiano entra in partita: si costituisce - a mezzo dell’Avvocatura dello Stato - dinanzi la Corte Costituzionale nel procedimento per la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale: «Istigazione o aiuto al suicidio». Il «casus belli» nacque dall’ordinanza del 14 febbraio 2018, della Corte di Assise di Milano che ha sospeso il processo, a Marco Cappato, imputato per aver «rafforzato» il proposito suicidario e per aver «agevolato» il suicidio di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo.

I giudici milanesi, interpretando la legge sulle «disposizioni anticipate di trattamento» (DAT) la 219/2017, definita anche «legge sul fine vita» o ancora «testamento biologico», sospesero il processo sollevando la questione di legittimità costituzionale. La costituzione del governo avviene nell’ultimo giorno utile giorno, quasi in sordina. Una costituzione ragionevolmente dibattuta (ricordiamo che il governo che si è costituito era il governo in carica al momento dell’approvazione della legge, ed ora è in carica solo per gli affari ordinari in attesa di un nuovo governo) e conseguenza del momento politico che stiamo vivendo e dei suoi nuovi equilibri a seguito del recente risultato elettorale: il parlamento che approvò la legge 219/2017 è stato sciolto.

In questo rapido sovrapporsi di eventi, leggere il significato politico della decisione della presidenza del Consiglio è complesso, ma certamente appare chiaro che non vi era alcuna necessità per i giudici milanesi di rivolgersi alla Consulta, tanto è vero che nel processo «Cappato» la Corte di Assise avrebbe potuto dare un’interpretazione della norma che non violasse i principi costituzionali, distinguendo così tra le condotte strettamente esecutive dell’atto suicidario e quelle invece, nel rispetto della volontà del malato, informative circa una sua scelta, seppur discutibile. La costituzione del governo è stata «necessaria» dal punto di vista giuridico per evitare un vuoto legislativo in una materia così delicata e per evitare l’impunità di condotte che possono causare la morte di una persona.

Nell’Italia del diritto si sperimenta il paradosso del processo legislativo: se per sua natura la portata della legge è universale (sarà poi compito del giudice applicarla al caso particolare), perché oggi assistiamo a procedimenti giudiziari di casi particolari che hanno la pretesa di modificare - anche attraverso questioni di legittimità costituzionale - una legislazione universale? Perché si vuole superare un principio giuridico a garanzia «dei molti» per un desiderio «dei pochi», ancor più in un tema delicato come quello del diritto alla vita? Pareva impossibile che, a fronte dell’approvazione della legge sulle «disposizioni anticipate di trattamento» e dell’ordinanza della Corte di Assise di Milano, decenni di giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, sul «diritto alla vita» - sul suo inizio e sulla sua fine - potessero essere cancellati da un processo che si pone dichiaratamente come ideologico piuttosto che giuridico, perché qui non è in gioco la dignità dei malati terminali.

Appare inoltre contraddittorio ed illogico sostenere che il «diritto alla vita» comprenda il «diritto alla morte»: se la Costituzione tutela alcuni «beni» non può certamente desumersi che tuteli il loro contrario, sarebbe come dire che dal «diritto alla libertà» derivi la tutela del «diritto alla schiavitù» o ancora che dal «diritto alla salute» derivi la tutela del «diritto alla malattia». Oggi il bene comune ha bisogno di logica giuridica ed è con questo auspicio che auguriamo alla Corte Costituzionale di stabilire un punto di ripartenza a sostegno del «principio personalistico» per future riflessioni scevre dal ridondante frastuono ideologico che spesso ci porta a confondere i diritti di tutti cittadini con i desideri individuali di ciascuno di noi.

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