Silvio non si ritira
La sua è una sfida

Occorrerà aspettare ancora qualche ora per capire se l’incontro «di necessità» tra la Lega di Matteo Salvini e il M5S di Luigi Di Maio sarà in grado di formare un governo. L’avvio politico è stato concesso da Silvio Berlusconi che ha deciso di fare il passo di lato che gli è stato più volte chiesto dai grillini, indisponibili a fare un governo con Forza Italia. Dopo due mesi di resistenza, il Cavaliere ha deciso di concedere la sua astensione «benevola», cioè una valutazione parlamentare provvedimento per provvedimento, un po’ come facevano i repubblicani di La Malfa nella Prima Repubblica.

In realtà, il gesto di Berlusconi sembra più una sfida che un ripiegamento: ora che l’ostacolo da lui costituito è stato volontariamente rimosso, Di Maio e Salvini devono dimostrare di essere davvero in grado di mettere in piedi un governo. Ora, se fallissero, non potrebbero accusare altri che loro stessi e dovrebbero presentarsi all’elettorato con lo stigma di chi ha avuto la sua occasione ma non è riuscito a sfruttarla.

È esattamente per evitare questo rischio che in queste ore leghisti e grillini stanno lavorando, consapevoli che i loro rispettivi elettorati guardano con sospetto una operazione che se fosse stata compiuta da altri, essi avrebbero definito un «inciucio», una «ammucchiata», ecc. Sui social non è piaciuta la frase di Di Maio che negava di aver mai posto veti su Berlusconi in cambio della «benevola astensione»: considerando che per anni il Cavaliere è stato definito nelle piazze grilline come il «male assoluto», tanto per usare un’espressione cara a Di Battista.

È proprio per questo che i grillini nel discutere di programmi con la Lega dovranno stare molto attenti a non farsi accusare di aver ceduto a Berlusconi anche su altri piani (vedi il conflitto di interessi o la politica televisiva) mentre Salvini non potrà farsi criticare per non aver difeso, nel caso, le prerogative del fondatore del centrodestra del quale lui, governo o no, ha dichiarato di restare alleato. Come di Giorgia Meloni che sembra voler restare fuori del cerchio governativo fedele alla dottrina «non inciucista» che ha provato vanamente in campagna elettorale a far sottoscrivere ai suoi soci di coalizione.

Dunque il programma è estremamente delicato: mettere insieme flat tax, abolizione della riforma Fornero sulle pensioni e reddito di cittadinanza non sarà facile per nessuno. Come la prenderanno, ad esempio, gli elettori leghisti del Nord l’idea grillina di concedere il RdC (adesso usa abbreviarlo così) che tanto consenso ha trovato nell’elettorato meridionale?

Altra questione, che in realtà viene ancora prima, è quella della poltrona numero uno del governo. A chi andrà la presidenza del Consiglio? Entrambi i contendenti hanno dichiarato di voler fare un passo indietro (Salvini lo ha detto subito, Di Maio ha impiegato due mesi quando ormai Mattarella era pronto a varare il governo tecnico). Potrebbe però essere un passo indietro a metà. Si potrebbe cioè tirar fuori dal baule della Prima Repubblica la celebre staffetta che fece litigare Craxi e De Mita negli anni ’80: da oggi fino a metà legislatura mi siedo io sulla poltrona numero uno del governo; per la seconda metà la passo a te. Ieri sera però in Transatlantico questa ipotesi era data in ribasso.

Altra possibilità, quella di scegliere una personalità che vada bene ad entrambi: il difficile è trovarla. Per il momento sono state già scartate le candidature del numero due della Lega Giorgetti e del professor Giovannini, ex ministro di Letta, che sarebbe piaciuto ai grillini. La trattativa comunque continua, Mattarella ha fatto sapere di poter pazientare fino a lunedì ma nel frattempo ha già dettato una serie di paletti di politica estera da non varcare. Tanto per dire che il Quirinale, su programma e ministri, non sarà uno studio notarile.

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