Speculatori e deficit
Il prezzo della crisi

Quanto costa la crisi all’Italia? Difficile, anzi, impossibile fare delle cifre. È possibile però cercare di individuare i fattori sui quali incidono il perdurare della crisi, l’impossibilità di formare un governo coeso e sostenuto da una solida maggioranza, una campagna elettorale permanente. Cercando di semplificare, tali fattori sono principalmente due. Il primo è l’incapacità del Paese di trovare una sua stabilità che si traduca, a livello sia interno sia internazionale, in una sua affidabilità. In termini di costi ciò si riflette prima di tutto sullo spread, cioè su quanto lo Stato deve pagare per riuscire a collocare sul mercato i propri titoli di debito (Bot, Btp…) in più rispetto a quanto non faccia la Germania.

Sullo spread si è sviluppato negli ultimi anni un dibattito essenzialmente politico, soprattutto dopo la crisi che portò nel 2011 alla caduta di Berlusconi ed al governo Monti. Non sempre si è però ricordato che il ritorno dello spread a livelli considerati fisiologici ha permesso allo Stato di risparmiare negli ultimi due anni cifre intorno ai 18 miliardi all’anno. Il rialzarsi dello spread vuol dire che vengono sottratte risorse al bilancio pubblico. Da qui il correlato dibattito sul livello del nostro debito e sull’opportunità o meno di fare politiche in deficit. Ridurre il debito non è un dovere perché «ce lo chiede l’Europa», ma prima di tutto per liberare risorse. Rialzo dello spread vuole poi dire rialzo dei tassi, indebolimento del risparmio, rialzo dei mutui con conseguente indebolimento del mercato immobiliare che stava proprio ora rialzando la testa.

Questo primo punto ha un corollario. Al ritorno dello spread a livelli fisiologici ha contribuito in questi anni la politica della Bce presieduta da Mario Draghi. In particolare ha contribuito il lancio dal 2015 del cosiddetto «Quantitative easing», cioè l’acquisto di consistenti stock di titoli di Stato, compresi i nostri. Tale politica, che ha dato i suoi frutti a noi molto favorevoli, sta giungendo a conclusione, così come sta giungendo a conclusione la presidenza di Draghi. Difficile immaginare che a Francoforte possa succedergli un presidente che faccia scudo alla nostra economia in maniera altrettanto efficace. Era questo il momento per consolidare i benefici ricevuti e imparare a camminare con le nostre forze. Il secondo fattore riguarda le nostre aziende e le politiche industriali. Per poter ipotizzare una politica di investimenti bisogna non solo poter sfruttare una congiuntura espansiva dell’economia, ma anche un quadro di regole e politiche industriali certe, cioè di stabilità. La crisi politica non è che impedisce di per sé gli investimenti, li rende più rischiosi. Diventa cioè più difficile per un’impresa programmare a fronte di una situazione di incertezza e di instabilità del quadro politico. Questo non solo per i nostri industriali, ma ancor di più per gli operatori internazionali che guardano alle capacità attrattive del nostro Paese. Va da sé che quantificare questo danno è ancora più difficile del primo, ma è un danno comunque consistente.

Entrambi questi fattori hanno come effetto collaterale quello di rendere più volatili i nostri mercati, più debole la Borsa di Milano. Soprattutto sarà sottoposta alle scorribande degli speculatori, sia per operazioni finanziarie sia industriali. Un’ultima considerazione. Una situazione di campagna elettorale permanente porta, come abbiamo già visto e stiamo verificando in queste ore, ad una radicalizzazione delle posizioni. Cercando di conquistare elettori assisteremo a programmi elettorali densi di proposte sempre più mirabolanti e lontane da una effettiva praticabilità. L’effetto annuncio sarà assicurato, a discapito del benessere del Paese.

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