Stop sanzioni
Il rischio resta

Il rientro della minaccia di sanzioni europee all’Italia è stata una buona notizia, perché non si riflette mai abbastanza su cosa significherebbe la retrocessione dei nostri titoli di debito a livelli che ne impedissero il salvataggio Bce. Ma anche per gli effetti concreti sullo spread, sceso sotto la fatidica soglia 200. Sempre sette volte più alto di quello francese, ma accontentiamoci. La vera buona notizia è però che il governo italiano sta accettando con le buone o le cattive, la logica della disciplina europea.

Fa la faccia feroce, i capi partito non votano i passi indietro di Tria in Consiglio dei Ministri e se ne vanno alla chetichella, preferendo le roboanti invettive dei comizi, ma la manovra correttiva di metà anno alla fine si fa. Sono 7,6 miliardi (circa 15 dal giorno del famoso balcone di Di Maio) e dunque c’è l’accettazione di una disciplina dettata dall’Europa. Numerini, si disse, ma il Def è stato ribaltato.

Stiamo sempre parlando del 2019, naturalmente, e siamo attesi al varco del 2020, dove arriveremo con 7,6 miliardi in meno, perché già usati contro le sanzioni. Per il momento tiriamo il fiato, prendiamo atto che l’Europa che doveva cambiare radicalmente, sarà invece un po’ più dura con noi, e festeggiamo la presidenza italiana del Parlamento. È appannaggio del Pd, ma non si può essere perfetti.

Guardando dentro quei 7,6 miliardi ci accorgiamo che sono sabbia sottratta all’ultima spiaggia. In parte sono entrate impreviste o non ripetibili. Rispetto alla manovra di dicembre, c’è la novità che i soldi vengono dalla voce entrate (oltre 1 miliardo solo dal concordato con un’azienda) e non da nuovi debiti. Tagli veri, quelli no, salvo i 2 miliardi già messi a pegno per il 2019 e che riguardano in apparenza Ministeri. Non verranno però dalla rinuncia alla cancelleria e al riscaldamento degli uffici, ma da qualche erogazione in meno. Pendolari e utenti della sanità sono avvertiti. Le entrate tributarie più alte del previsto (windfall, in inglese) vengono da maggiore efficienza esattiva. Vedi fatturazione elettronica, che era oggetto di forsennata opposizione quando fu introdotta, ma ora salva il governo.

L’altra voce grossa è la riscossione di maggiori dividendi da Cassa Depositi e Banca d’Italia. Lo Stato padrone dispone e gli amministratori non possono opporsi. Ultima voce importante, quella del decreto che congela gli avanzi di spesa non usata (erano peraltro a debito) per reddito di cittadinanza e quota 100. Il flop dei due provvedimenti bandiera mette insomma una toppa ai guai di un bilancio allegro, con qualche mugugno di chi come Di Maio aveva già destinato gli avanzi a nuove spese promesse. Insomma, la logica di fondo della finanza pubblica in salsa populista non cambia. Si evitano i nodi veri, non si scontenta nessuno con tagli e si rilanciano promesse mirabolanti. Persino le privatizzazioni previste per 18 miliardi sono materia rognosa, e arrivati a luglio non abbiamo ancora visto un euro.

Nelle (comprensibilmente) ottimistiche interviste di Tria di questi giorni non se ne parla neppure. Per il 2020 ancora non c’è nulla di definito e sono generici gli accenni a spending review, ulteriori risparmi su reddito di cittadinanza e maggiori entrate da evasione. Eppure di cifre grosse bisognerebbe parlare, visto che ci sono 23 miliardi di nuova Iva da evitare.

Come farlo ce lo dirà questa storia infinita, che per ora prevede le solite promesse di entrate da tagliare. È la favola bella della flat tax, che Tria derubrica in «tagli al ceto medio» quello che paga di più, visto che fino a 15 mila euro di reddito (18,5 milioni di persone!) si versa tra 0 e 5%, e fino a 35 mila siamo già ora attorno al 15%. Aspettiamo comunque di vedere i numeri. Saranno stavolta numeroni.

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