Telecom cambia
I dubbi restano

Il ribaltone che ha portato il fondo americano Elliott a guidare Telecom, ora Tim, e dare scacco alle ambizioni francesi di Vivendi, restato peraltro primo azionista, viene spiegato come un passo verso la trasformazione dell’azienda in una public company. Espressione, quest’ultima, che suona bene, che fa molto democrazia diretta, di moda in questi tempi, quasi la manifestazione di una specie di «volontà generale» rousseauniana dei soci. Il precedente, oltre vent’anni fa, del tentativo di proprietà diffusa dell’ex fiore all’occhiello statale, porta però al ricordo di una privatizzazione disastrosa (mentre provvidenziale fu la liberalizzazione, di cui gli utenti godono da allora in termini di tariffe).

All’epoca, il colosso delle telecomunicazioni forse più grande d’Europa fu praticamente regalato per pochi soldi alla famiglia Agnelli, titolare di un «nocciolino» di controllo dentro un mare di azionisti nani. E vennero, dopo la gestione di un manager Fiat decisamente inadeguato, guai e speculazioni, con il titolo iniziale a 5,6 euro, oggi attorno ad un euro. Prima la scalata a debito dei cosiddetti capitani coraggiosi (100 mila miliardi di lire!), in nome di un’italianità non proprio patriottica, poi il passaggio – con ottima plusvalenza – a capitalisti estranei al business, come Benetton e Pirelli. Con gli azionisti di quest’ultima che pagarono presto una perdita secca di 2 miliardi con l’aggiunta di guai giudiziari per Tronchetti Provera, in un contesto addirittura di spionaggi, suicidi e misteri vari.

E subito dopo – al culmine di vicende in cui molti si sono arricchiti (Ferruccio de Bortoli ha calcolato esborsi di 4,7 miliardi a consulenti e banche d’affari) e altri hanno perso la faccia, anche giganti come Mediobanca e Generali – sono arrivati gli stranieri. Prima gli spagnoli di Telefonica, poi l’arrembante Bollorè di Vivendi, alle prese in questi giorni con la magistratura penale francese, ma che all’inizio pareva inarrestabile, fino al punto di scalare Mediaset, con il governo di centrosinistra in soccorso dell’impero di Berlusconi…

Che, dunque, dopo la tempestosa assemblea, si parli di nuovo di public company, qualche brivido lo procura. In realtà, tutti gli scenari sono aperti, a cominciare dalle decisioni che prenderanno vincitori e vinti, che per il momento condividono la conferma del Ceo, l’israeliano Amos Genish. Elliot è un fondo dichiaratamente speculativo e non possiamo certo aspettarci, come italiani, benevolenze superiori a quelle che ci ha riservato il «pirata» bretone ora (forse) sconfitto. La differenza, a nostro favore come Italia, è che in campo è scesa («per monitorare») Cassa depositi e prestiti, e con essa il governo pur azzoppato, ma tempestivo, grazie al ministro Carlo Calenda, nel ritagliare una posizione determinante nell’orientamento dell’assemblea e che può giocare un ruolo importante per consegnare in mani italiane l’asset più strategico di Tim, e cioè la rete (magari accorpata con Open fiber di Cdp ed Enel), grazie anche al golden power. Forse, un’occasione di rientro finanziario per i nuovi o futuri padroni di un’azienda già molto dimagrita e che deve fronteggiare un debito che – all’inizio dell’avventura, nel 1998 – era meno di un terzo del fatturato e oggi è quasi una volta e mezzo. Un macigno salito a 37 mila miliardi di lire ai tempi dei «capitani». L’impressione, comunque, è che ci si trovi solo all’inizio di una nuova fase, che potrebbe riservare nuovi colpi di scena. Di buono c’è che il nuovo board di Tim è quasi interamente italiano, è formato da amministratori di valore, tutti indipendenti (anche se con qualche collegamento con Fca e Sergio Marchionne che forse andrebbe chiarito). Quanto al futuro conta poco – nell’economia di oggi – che un’azienda importante, che dà lavoro in Italia, abbia sul tetto una bandiera straniera. Conta di più che funzioni bene e crei valore in un mercato molto concorrenziale, forte ma in diminuzione nel fisso e accerchiato nel mobile. Per questo è necessaria una guida manageriale sicura, ma anche un azionariato con le idee chiare sulla missione industriale da svolgere. Il grande boss di Elliott, Paul Singer, è anche l’ombra (cinese) che condiziona il futuro del Milan, e in Italia essere appassionati di calcio è utile, ma non necessariamente decisivo.

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