Terremoto trump,
il market italiano

Trump entra di prepotenza nella politica italiana, anche se il neopresidente americano è afflitto da problemi più urgenti. Detto in maniera diversa: il trumpismo, come codice politico con il quale ci dovremo misurare, promette di sparigliare, dividere e radicalizzare. Con un gioco al rialzo. Lo abbiamo visto ieri a Firenze con Salvini che, presa la palla al balzo, si mette sulla scia in ragione della propria primogenitura.

È sicuro di farcela e si candida a premier, legando impropriamente la declinazione italiana del nuovo conformismo populista al referendum: «Se vince il no si vota, non decide Mattarella», là dove invece, Costituzione alla mano, nel caso la scelta toccherà proprio al presidente della Repubblica. Il tutto avviene, detto en passant, nel giorno in cui la Giunta forzaleghista di Padova s’è sfasciata. Il trumpismo complicherà la vita a tutti: al governo Renzi, il che è scontato, ma anche al centrodestra. In ballo ci sono la leadership dell’area berlusconiana e la titolarità dei voti contrari al referendum costituzionale, con la Lega che cerca di recuperare lo svantaggio sui grillini.

Per un Salvini, affiancato dal governatore azzurro Toti, che si vede già su un’autostrada, c’è un Parisi, chiamato a ricostruire Forza Italia, che si smarca gelido: «Non siamo quella roba lì». E soprattutto c’è un tattico Berlusconi che, alla vigilia della manifestazione nella città di Renzi, precisava al «Corriere» di non rappresentare la destra ma un centro liberale: prospettiva da dimostrare, ma che in questo contrasto tutto interno al centrodestra suona come l’ennesimo freno alla ruspa leghista. Quanto a Renzi, il premier europeo che più di altri si era speso per Hillary, nel perdere la sponda americana s’è trovato spiazzato. Soprattutto nei confronti dell’Europa, con il contenzioso aperto sulla flessibilità di bilancio e con le stime di Bruxelles che hanno rivisto al ribasso la crescita italiana. Ma Renzi resta pur sempre l’unica risorsa per arginare i movimenti anti sistema, con la sua miscela di populismo istituzionale, europeismo critico, riforme ed economia global. Oltre ad essere, fra i governanti europei, quello che sta meno peggio: almeno fino al 4 dicembre.

Detto tutto questo, saremmo molto cauti nelle previsioni (con l’aria che tira), specie nel creare automatismi con l’import del trumpismo. Ogni Paese fa storia a sé ed ogni elezione è un terno al lotto. Dopo la Brexit di giugno, Podemos in Spagna non è andato avanti ma è arretrato: la cronaca si diverte a smontare teoremi costruiti a tavolino. Da noi si possono fare due ipotesi, con tutte le prudenze del caso. La più immediata è lo sfondamento del trumpismo e tanti auguri a chi poi dovrà ricostruire. L’altra è più sofisticata e si spiega anche con l’effetto boomerang del superamento di una linea di ragionevolezza. Sia l’uscita dell’Inghilterra dalla Ue sia lo sbarco del tycoon alla Casa Bianca hanno raggiunto la soglia dell’impensabile in una cultura, quella anglosassone, che non è quella eurocontinentale, più diffidente rispetto al contagio degli eccessi.

È possibile che i simil Trump spaventino la sensibilità razionale di quei ceti moderati che, pur tentati dal cambiamento, non amano avventure al buio e radicali. E c’è poi un’altra variante: la ricerca comunque della novità, del superamento di un ordine stabilito, che è il volto meno impresentabile del nuovo inquilino della Casa Bianca, potrebbe far da sfondo alla necessità di scelte riformiste. Insomma, il terremoto Trump, nel cortocircuito fra emozioni e realtà, si stinge nelle forme di chi lo reinterpreta secondo le convenienze del momento: un supermarket dove prendere ciò che serve.

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