Testamento biologico
Giustizia a orologeria

La legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) la 219/2017, oppure come oggi comunemente viene definita «legge sul fine vita» o ancora «testamento biologico», è già arrivata nelle «mani» dei tribunali. È paradossale che, da un lato, siamo il Paese con il maggior numero di leggi e dall’altro, abbiamo sempre bisogno dell’interpretazione di un tribunale per sapere cosa effettivamente vogliano dire. Così a 14 giorni dall’entrata in vigore della legge sulle Dat, la Corte d’Assise di Milano ha sospeso con ordinanza un processo, sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale: «Istigazione o aiuto al suicidio».

L’imputato Marco Cappato, messo a processo per aver «rafforzato» il proposito suicidario e per aver «agevolato» il suicidio di Fabiano Antoniani (noto come Dj Fabo). Un susseguirsi di tempistiche tra l’approvazione della legge, la sua entrata in vigore e la questione di «legittimità costituzionale», non certo casuale. I giudici di Milano, dichiarano di non condividere l’orientamento consolidato, della giurisprudenza di legittimità, ossia quella della Corte di Cassazione.

La vita è un «bene supremo», così nel 2013 si esprimevano i consiglieri della Cassazione, riferendosi al suicidio che, pur non essendo punito in sé, «costituisce pur sempre una scelta moralmente non condivisibile, non giustificabile ed avversata dalla stragrande maggioranza dei consociati, a prescindere dalle loro convinzioni religiose e politiche».

Riaffermano con forza il concetto nell’ottobre del 2017 (caso Englaro) precisando che dalla Costituzione della Repubblica italiana, non deriva né il «diritto a morire» né la facoltà di «scegliere la morte piuttosto che la vita». Un orientamento consolidato della Cassazione, anche alla luce di processi che hanno destato un certo interesse politico e mediatico, viene messo in discussione dalla decisione di una Corte di Assise che ha due possibilità, anzi tre: la prima è di adeguarsi ad un orientamento che non condivide, la seconda è di pronunciarsi in contrasto con l’orientamento della Cassazione, con il rischio concreto di vedersi riformata la sentenza e la terza possibilità è quella di rivolgersi alla Corte Costituzionale quando ritiene che la propria interpretazione sia quella corrispondente al diritto vivente, possibilità ribadita in una sentenza della Corte Costituzionale del 2016.

I giudici milanesi decidono per questa terza via, una via non facile, nella quale gli ostacoli giuridico-politici possono creare barriere spesso invalicabili, ma oggi pare esserci un «grimaldello giuridico» forgiato allo scopo: la legge 219/2017. L’ordinanza affronta il tema del «bene giuridico» tutelato dall’art. 580 c.p., evidenziando che l’articolo in questione è stato introdotto nel 1930 con il codice Rocco, in un determinato contesto politico nel quale l’uomo aveva un «valore sociale» dal quale discendeva un dovere di restare in vita ed in buona salute, non solo per sé ma in quanto parte della collettività. La Corte di Assise, sottolinea che la ratio dell’art. 580 c.p. va oggi interpretata alla luce della Costituzione che, pur non enunciando espressamente il «diritto alla vita», lo pone a presupposto di ogni altro diritto riconosciuto all’individuo e, attraverso il principio personalistico, pone l’uomo e non lo Stato al centro della società. I giudici milanesi aggiungono che «da questi principi costituzionali deriva la libertà per l’individuo di decidere sulla propria vita ancorché da ciò dipenda la sua morte».

Questo ultimo passaggio appare un po’ forzato, perché vi è una decisa differenza tra il «principio personalistico» e quello «individualistico», dove nel primo l’elemento relazionale con gli altri consociati diventa costitutivo, nel secondo no. Pare allora contraddittorio sostenere che il «diritto di morire» sia fondato sul principio personalistico, quando invece è l’espressione dell’individualismo fine a se stesso e privato di quell’elemento relazionale, costitutivo della persona in quanto tale.

Il percorso motivazionale della Corte d’Assise prosegue attraverso la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, per concludersi con una dettagliata «esegesi» della legge 219/2017, evidenziando che dalle discussioni parlamentari e dai lavori preparatori emerge che «il Parlamento era consapevole che il prevedere per il paziente la possibilità di rifiutare la nutrizione artificiale comportava di fatto riconoscere il suo diritto a scegliere di morire non già a causa della malattia ma per la privazione di sostegni vitali». Se dalla legge 219/2017 scaturivano molte domande senza risposta, da questa ordinanza sembrano emergere molte risposte a domande non poste, ovvero molte giustificazioni a spiegazioni non richieste. Comunque sia, quando ci si confronta con atti della magistratura, è doveroso concludere che vi è il pieno rispetto per l’operato dei giudici, che non esistono le coincidenze, che le sentenze mantengono la massima indipendenza dal sentire politico e che «la legge è uguale per tutti».

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