Trump riscrive
le alleanze

Chi voleva capire bene che cosa voglia dire l’espressione «esperienza politica» non doveva far altro che seguire la conferenza stampa che Donald Trump e Vladimir Putin hanno tenuto al termine del loro primo faccia a faccia dopo due anni di polemiche e accuse a distanza. Ci sono occasioni in cui resistere al vertice di una grande nazione per vent’anni serve più che costruire grattacieli e ieri lo si è visto bene. Putin navigato e sicuro, Trump ondivago e mai preciso. Il leader russo tranquillo e lineare, il presidente Usa incapace di scegliere tra indulgenza e attacco, soprattutto verso i suoi denigratori interni. Non a caso la stampa americana è furiosa con Trump e i democratici e parte dei repubblicani fanno a gara nell’organizzarne il linciaggio. Detto questo, e a costo di passare per illuso, mi pare di scorgere una trumpiana logica in questa trumpiana follia. Una logica, peraltro, che va ben oltre l’avversione del presidente (e del suo collega del Cremlino) per il Russiagate, la presunta interferenza dei servizi segreti russi nelle elezioni che lo portarono a conquistare la Casa Bianca.

Durante la trasferta che ha portato Trump a Bruxelles per il summit dei Paesi Nato, poi a Londra e infine a Helsinki per l’incontro con Putin, è accaduto proprio ciò che gli atlantisti puri temevano che succedesse. Ovvero: Trump ha messo alle strette gli europei e offerto una possibilità alla Russia. È un fatto nuovo, di certo per noi preoccupante. Ma il vero dramma è non capire che questo non è il capriccio di un presidente bizzarro o, peggio, venduto ai russi ma il segno di un mondo nuovo a cui noi europei faremmo bene ad abituarci.

Donald Trump è arrivato alla Casa Bianca sulla base di uno slogan apertamente nazionalista: «America first!», prima di tutto l’America. Lui, però, non è solo un nazionalista, ma anche il presidente della superpotenza mondiale. Quindi è convinto, e con una certa ragione, che gli Stati Uniti possono prendere decisioni che, in virtù della loro potenza economica, militare e tecnologica, saranno poi seguite o sopportate anche dagli altri Paesi. E che, dunque, le vecchie alleanze vadano riscritte o annullate.

Per questo Trump è uscito dai trattati commerciali internazionali (Nafta, Tpp, Ttip), ha fatto approvare una riforma fiscale che protegge le aziende americane e penalizza quelle europee, ha imposto alle importazioni europee di alluminio e acciaio (e minaccia di farlo con le automobili) dazi che sono vere sanzioni economiche, ha scatenato una guerra commerciale con la Cina, è uscito dal trattato sul nucleare iraniano minacciando, di nuovo, sanzioni contro le aziende europee che continueranno ad avere relazioni economiche con l’Iran e così via.

In questo quadro, chi può dare più fastidio a Trump e alla «sua» America? La Russia oppure l’Europa? Un Paese come la Russia, grande, orgoglioso e forte ma con la Nato alle porte, un’economia che stenta ad affrancarsi dalla dipendenza di gas e petrolio e che, dal punto di vista economico, è ben poco pericoloso per gli interessi dei produttori Usa. Oppure un insieme di Paesi come l’Unione Europea, titolare del 20% degli scambi commerciali mondiali e che nell’import-export con gli Usa ha un attivo di circa 150 miliardi di dollari?

Non mi pare che la risposta sia poi così complicata. Certo, è un modo di ragionare cui non siamo abituati. Anzi, cui nessuno è abituato. Ma la crisi economica del 2008 ha cambiato il mondo e Trump è solo il segnale più visto di questo cambiamento. Se il potente complesso militar-industriale, a cui il nemico russo serve come incentivo per gli affari, non troverà il modo di neutralizzarlo, il buon Donald ce ne farà ancora vedere delle belle. O brutte, se non avremo saputo adeguarci.

© RIPRODUZIONE RISERVATA