Ultima chiamata
in casa Pd

La domanda fondamentale è: davvero può reggere un’intesa di governo tra democratici e grillini, come dire tra guelfi e ghibellini, carnivori e vegani, romanisti e laziali? Aldilà delle dichiarazioni ufficiali con cui l’«esploratore» Roberto Fico ha concluso il suo mandato («Il dialogo è avviato, ora tocca ai partiti discutere») a Montecitorio e dintorni c’è il più largo scetticismo che davvero possa vedere la luce un governo M5S-Pd. È vero che il reggente del Pd Martina ha dichiarato che sono stati fatti in questi giorni «passi importanti», e che Di Maio ha chiesto «un contratto al rialzo» non una vera alleanza politica, ma tutti sanno che i renziani restano durissimamente contrari a firmare un patto del genere.

Lo dicono in tutti i modi, lo dichiarano a ogni microfono, taccuino, social, sollecitando la base a sottoscrivere l’hastag #senzadime per far sentire la sua voce contraria. Renzi in persona, in piazza a Firenze il giorno del 25 aprile, si è fatto riprendere mentre domandava l’opinione di militanti ed elettori, tutti fieramente renitenti ad affiancarsi a quelli da cui fino a due mesi fa si sentivano definire «pidioti». È vero che tra i renziani si registrano delle sfumature diverse, ma sembrano più dovute al carattere dei singoli che a una differenza reale: c’è il ministro Del Rio che si mostra più cauto e c’è il pasdaran Michele Anzaldi che spara a palle incatenate. Tra l’altro, da quel che si sa, la protesta renziana sta seriamente coinvolgendo la linea di condotta del reggente Martina, accusato di eccessivo aperturismo: al punto che un ex seguace di Dario Franceschini, il sottosegretario alle Comunicazioni Giacomelli, da giorni invoca il ritorno di Renzi alla segreteria e il ritiro per acclamazione delle sue dimissioni. Giovedì prossimo i democratici si riuniranno in direzione e voteranno: da lì dipende tutto. Se prevarranno i «no» il giocattolo si romperà prima ancora di essere estratto dalla scatola. C’è anche chi paventa la possibilità di una ulteriore scissione del Pd.

Di sicuro se la direzione del Pd si concluderà con un «niet» al Quirinale dovranno ricominciare daccapo. A malincuore: anche se Mattarella si muove con esemplare correttezza costituzionale e non ha mai fatto trapelare la preferenza per una formula o un’altra, più d’uno sostiene che in cuor suo il Capo dello Stato preferirebbe che i democratici si affiancassero ai grillini, un po’ per evitare che vada al governo la destra sovranista di Matteo Salvini, un po’ perché si affiderebbe all’esperienza dei democratici per far maturare gli inesperti pentastellati. Le prossime scadenze interne, economiche e internazionali richiedono un governo operativo da subito, non ci sarà tempo per l’apprendistato. Ma se, dopo la chiusura del «forno leghista» si spegnerà anche quello dl Pd, al Colle si troveranno in un bel labirinto. Anche perché sia i leghisti che i grillini hanno già detto «no» a sostenere un governo istituzionale o di tregua messo in piedi da Mattarella con il compito di traghettare la legislatura verso nuove elezioni nell’arco di un anno. Se anche questa strada si rivelasse ostruita occorrerebbe andare a votare prima dell’estate: ancora per qualche giorno ci saranno i tempi tecnici. A meno che non ci sia il colpo di teatro: vuoi vedere che il vecchio filo tra Di Maio e Salvini non è davvero interrotto e che, cancellate tutte ipotesi, si possa tornare da dove tutto era cominciato? Ieri Di Maio ha attaccato durissimamente Berlusconi annunciando che, una volta al governo, il M5S promuoverà una legge sul conflitto di interessi che vieti a chi fa politica di possedere televisioni e giornali. Un messaggio che non ha nemmeno bisogno di essere spiegato.

© RIPRODUZIONE RISERVATA