Pietà per un bimbo
e dopo il silenzio

Il bimbo con la maglietta rossa riverso sul bagnasciuga. Punto. Non servirebbe altro perché tutto il resto viene dal cuore, viene dalla coscienza, viene dall’anima, luoghi nei quali alberga l’essenza dell’uomo, la ragione stessa del camminare per un tratto su questa terra. Il bimbo con la maglietta rossa aveva tre anni, si chiamava Aylan e arrivava da Kobane, l’ultimo baluardo di civiltà assediata per mesi dai guerriglieri dell’Isis. Quel piccolo cittadino siriano che era riuscito a sfuggire alle grinfie dell’uomo nero, è annegato con la mamma e il fratellino, e il mare lo ha restituito a noi perché gli dessimo silenziosa sepoltura.

Perché, con la pietà che è propria di ogni padre, lo sollevassimo un’ultima volta da terra per fargli sentire calore. Cosa che ha fatto il volontario della protezione civile di Bodrum. E lo proteggeva mentre con la coda dell’occhio sembrava dire al fotografo: perché diavolo hai scattato? Ora il piccolo Aylan è il simbolo involontario di un enorme dramma. E lo è in una società dei simboli come la nostra, incapace di argomentare e di approfondire, ma formidabile nell’aggrapparsi a un’immagine e trasformarla in icona da condividere-commentare-riempire di like. Così, più passano le ore, più il bimbo con la maglietta rossa morto davanti al lento respiro del mare si trasforma in una foto. E la causa della sua morte trascolora davanti al quesito supremo di chi - non avendo risposte per le stragi in mare - prova ad averne qualcuna per la morale comune di giornata: quella foto andava pubblicata o no?

Chi lo ha fatto e propende per il sì, difende la scelta con il diritto di cronaca e con la necessità di indurre i potenti della terra (o almeno gli azzimati contabili che governano l’Europa) a fare un salto sulle loro poltrone, a sentirsi avvampare di vergogna davanti a un simile shock. Chi non lo ha fatto e propende per il no (e in questo gruppo ci siamo anche noi) ritiene che la pietà e la compassione debbano stare un passo avanti rispetto a tutto il resto. E che la forza evocativa di un’immagine possa irrompere nelle case con effetti che non siamo in grado di prevedere.

Delegare i sentimenti all’impatto di una foto è perfino facile, ma ha in sè un formidabile rischio, quello della strumentalizzazione. Oggi quel bimbo con la maglietta rossa, invece di riposare in pace, è in braccio a chi grida che simili scene non sono tollerabili e che, quindi, le grandi migrazioni devono essere semplicemente accettate. Al tempo stesso è in braccio anche a chi, con identica forza, urla che simili tragedie vanno evitate non lasciando partire i profughi, ma aiutandoli laggiù dove diventano tali per colpa delle guerre e del sangue. Così Aylan si trasforma in paravento emotivo, diventa simbolo strumentale non di una storia che è ancora cronaca, ma delle nostre discordie, delle nostre opinioni, delle nostre incapacità. E scendendo per li rami verso la vergogna, delle nostre campagne elettorali.

Il bimbo con la maglietta rossa riverso sul bagnasciuga. Punto. Una preghiera, un pensiero, tutto il resto è già troppo. Per questo non abbiamo pubblicato quella foto, ma continuiamo a mettere a tema il dramma suo e di migliaia di esseri umani che fuggono dalle atrocità. Aylan non è il bambino con le mani alzate davanti al fucile dei nazisti nel ghetto di Varsavia e neppure la bambina che fugge dal napalm di My Lai in Vietnam .C’è una fondamentale differenza: al momento dello scatto loro erano vivi. E nonostante il collegamento cromatico con quel puntino rosso che evoca ed emoziona, non è neppure il bimbo di Schindler’s List. Non siamo davanti a un film, ma a un’enorme catastrofe umanitaria di fronte alla quale ci sentiamo impotenti.

Siamo davanti a una famiglia che al culmine di un viaggio di disperazione ha scelto di rischiare la vita in mare (sognava il Canada) piuttosto che aspettare la morte sulla prima sponda. Lo stanno facendo in tanti, stanno morendo da due anni. E quella corona di fiori lanciata da Papa Francesco nelle acque di Lampedusa li accomuna tutti.

La scelta non era semplice. Mario Calabresi è un bravo giornalista e ha deciso di pubblicare la foto. Lo spiega con parole di particolare sensibilità, intitola il suo articolo sulla Stampa «La spiaggia su cui muore l’Europa», argomenta i dubbi in redazione, fa comprendere le angosce e i ripensamenti che sempre ci accompagnano nella confezione di un giornale. quello che Montanelli definiva: «Un giudizio universale che si celebra tutti i giorni».

Ieri, mentre eravamo immobili davanti alla foto, nel sottopassaggio della stazione di Budapest invasa dai profughi e in piena emergenza, una giovane sposa siriana dava alla luce una bambina. L’ha chiamata Shems, Speranza. Se proprio dovessimo scegliere un simbolo, vorremmo che fosse questo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA