Una guerra per procura
Chi sono i mandanti

Torna sulla Siria lo spettro delle armi chimiche. Quello di una bomba al cloro che l’aviazione siriana avrebbe sganciato su Douma, il sobborgo di Damasco dove resistono gli irriducibili di Jays al-Islam (l’Armata dell’Islam), e che avrebbe fatto oltre 100 morti, in gran parte civili disarmati. Come ha riconosciuto l’Onu in una nota del segretario generale Antonio Guterres, è impossibile avere un’affidabile conferma o smentita dei fatti. Ad accusare Assad sono, oltre ai miliziani, gli Elmetti bianchi e l’Osservatorio siriano dei diritti umani, di fatto due agenzie di sostegno alla ribellione. A smentire l’uso di armi chimiche, oltre ovviamente ai governativi siriani, anche i loro alleati russi.

Per parte loro, sia Damasco sia Mosca da giorni avvertivano che quelli di Jaysh al-Islam stavano preparando una provocazione sul tema delle armi chimiche. Il che potrebbe anche essere stato, per i generali di Assad e Putin, un ottimo sistema per coprirsi le spalle in anticipo. Gli Usa, ora, lanciano accuse e minacciano rappresaglie. Ma sono stati loro a coprire per anni quelli di Jaysh al-Islam, tagliagole che hanno bombardato i civili del lato opposto e sparato su quelli di Douma che chiedevano loro di arrendersi o andarsene, rifiutando di metterli nella lista nera dei gruppi terroristici perché finanziati dall’Arabia Saudita, grande alleata degli americani. E Donald Trump può twittare finché vuole ma lo sdegno che mostra oggi per i civili morti a Douma lo ha negato, ieri, ai civili morti a Gaza, sbarrando la strada in sede Onu a qualunque indagine indipendente.

Insomma, siamo alle solite. In Siria si continua a combattere una guerra per conto terzi, la devastazione del Paese e del suo popolo si compie in nome di interessi calcolati a Washington, Mosca, Ankara, Londra, Riad, Teheran, Tel Aviv, Parigi. Ovunque tranne che a Damasco. Dopo sette anni di ferro, fuoco e sangue non ha nemmeno più senso chiedersi che cosa sarebbe stato se la rivolta originaria in nome della democrazia (ammesso che sia mai esistita) fosse sopravvissuta alla doppia offensiva delle truppe di Assad e delle milizie dei fondamentalisti. Finiremmo a parlare di un’éra ormai lontanissima.

L’unica cosa sensata, ora, è far tacere le armi al più presto, come chiede con toni sempre più accorati Papa Francesco. È chiaro da anni, ormai, che il progetto delle petromonarchie del Golfo Persico e dei loro benevoli protettori occidentali, distruggere l’unità territoriale della Siria e di fatto cancellarla come Paese, è fallito. Di più: quel tentativo ha reso semmai Assad più dipendente dagli alleati, regalando nuovi spazi alla Russia e, se pensiamo al Medio Oriente, soprattutto all’Iran. Una manifestazione di idiozia politica che solo i miliardi sauditi, distribuiti a piene mani nelle capitali che contano, tengono lontana dall’autocritica e che sarebbe davvero tempo di archiviare.

Sui vincitori, quindi, ricade una grande responsabilità. Hanno in mente una strada verso la pace o il futuro sarà fatto solo dei tatticismi bellicisti di Erdogan, delle ambizioni politiche degli ayatollah e delle astuzie di Putin che, con un Paese che pare sempre in bilico, tiene testa a tutti e, in Siria, ha mandato a monte i piani di un’alleanza economica, militare e politica tanto più forte di lui? Per ora abbiamo solo assistito al ritiro della coppa, ovvero al summit tra Erdogan, Putin e Rouhani in Turchia. Occorre ben altro che una spartizione in sfere d’influenza e toccherà a loro costruirlo, per la Siria e per il Medio Oriente. Vedremo se riusciranno dove hanno clamorosamente fallito gli americani e i loro alleati. Da Ghouta ad Afrin, tutto ci dice che non sarà facile.

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