Una morte sospetta
nell’Egitto della paura

La morte violenta di Carlo Regeni, il giovane italiano che al Cairo era impegnato in una tesi di dottorato sull’economia egiziana e che, scomparso il 25 gennaio, è stato poi ritrovato senza vita e con segni di crudeli torture sul corpo, è stata per poche ore la tragedia insopportabile di una famiglia ma è poi rapidamente diventata un caso di politica internazionale.

Lo testimonia lo scambio di sospetti, per non dire di velate accuse, che ormai corre tra Italia ed Egitto. Quando un ministero degli Esteri diffonde un comunicato in cui annuncia che «l’Italia si attende dalle autorità egiziane la massima collaborazione a tutti i livelli, alla luce dell’eccezionale gravità di quanto accaduto al nostro connazionale», vuol dire che ha la sensazione che non stia andando proprio così, e che la collaborazione potrebbe essere migliore. E il nostro ministero ha fatto proprio così.

Dall’Egitto, d’altra parte, sono arrivate notizie tanto contraddittorie da far temere il peggio, quanto a trasparenza delle indagini. Regeni è morto in un incidente d’auto, ha detto la procura di Giza. L’ambasciatore egiziano in Italia ha invece parlato di «atto criminale», mentre al Cairo i portavoce del ministero degli Interni smentivano quanto rivelato dalla stessa polizia egiziana, e cioè negavano che sul corpo del ragazzo ci fossero segni di tortura.

Sullo sfondo c’è, ovviamente, la situazione molto tesa e particolare dell’Egitto governato con pugno di ferro dall’ex generale Al Sisi. Il suo Governo, nato con il colpo di Stato militare che nel luglio 2013 depose il presidente Morsi e il regime dei Fratelli Musulmani, ha «pacificato» l’Egitto a furia di arresti, processi e repressioni che hanno investito non solo il fronte del radicalismo islamico ma anche quello della protesta laica che nel 2011 aveva molto contribuito a far cadere l’autocrate Mubarak. Nel solo 2015 ben 230 militanti dei movimenti giovanili di Piazza Tahrir sono stati condannati all’ergastolo.

L’Egitto è tuttora inquieto, come i ricorrenti attentati ed arresti dimostrano, insieme con le vicende sempre travagliate del Sinai, ribelle al potere centrale e infiltrato dall’Isis e dai suoi affini. Il timore è che Regeni sia stato stritolato proprio da questa morsa. Si sa che i suoi studi di economia l’avevano portato a cercare il contatto con attivisti e sindacalisti che cercano di proteggere i diritti (scarsi) dei lavoratori di quel Paese. E la sua scomparsa è avvenuta proprio il 25 gennaio, giorno esatto del quinto anniversario della cacciata di Mubarak: momento gravido di ricordi e rancori per la popolazione, appuntamento di estrema tensione per le forze dell’ordine. Il timore è presto detto: che il ragazzo sia finito nelle mani di qualche poliziotto convinto di dover sventare chissà quale complotto e facile a perdere ogni freno inibitore.

Può anche darsi che sia un cattivo pensiero immotivato. Non capita di frequente che uno straniero sia torturato e ucciso a sangue freddo, per di più in un Paese amico dell’Italia come l’Egitto. Nondimeno, Al Sisi e i suoi devono chiarire, perché troppo accade nel loro Paese per convincerci ad abbandonare il sospetto solo sulla base della fiducia. Noi, peraltro, non dobbiamo spendere la memoria del povero Regeni solo per nutrire un piccolo rigurgito di orgoglio nazionale. Il tema dei diritti civili, nei Paesi del Medio Oriente, è la cartina al tornasole della nostra sincerità e credibilità. Dobbiamo difenderli per ciò che sono e valgono in assoluto, per tutti, non solo per i nostri all’estero. E fin troppo spesso, come gli esempi recenti dell’Arabia Saudita e dell’Iran dimostrano, questo non avviene.

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