Uomini di comando
e cultura di governo

L’uomo solo al comando è richiesto. Globalizzazione, divisione internazionale del lavoro, tecnologie in costante mutamento non tengono più i tempi della politica . Il cittadino è esposto a cambiamenti repentini dall’improvvisa perdita del posto di lavoro, alla necessità di riqualificazione e aggiornamento, dalla banda larga alla mobilità sostenibile tutto è in movimento. Una rivoluzione quotidiana che deve essere guidata per non diventare caotica. Un governo che non ha strumenti per operare con tempestività è un governo monco e crea solo disaffezione tra i suoi elettori. Il cittadino vota per essere aiutato nella ricerca della certezza. Chiede comprensione nell’affanno quotidiano per essere all’altezza della sfide. Sfide sia lavorative sia sociali, che nell’Europa di qualche anno fa potevano essere ancora marginali, ma ora vanno gestite per evitare di soccombere alle emergenze. Talune prassi della politica, come la capacità di mediazione, appaiono usurate dal tempo e la difficoltà di una sintesi efficace rischia talvolta di favorire le esigenze di protagonismo dei singoli partiti, a scapito della velocità decisionale e quindi della efficacia di governo.

È un processo politico che riguarda tutto il mondo occidentale. In Francia, dove domani sarà eletto il nuovo presidente della Repubblica, lo si legge in modo inequivocabile: nessuno dei due partiti tradizionali, i socialisti e i repubblicani/gollisti, è riuscito a piazzare un suo candidato al ballottaggio. Emmanuel Macron fonda un movimento che porta le sue iniziali EM (En Marche) e Marine Le Pen guida un partito antisistema ereditato dal padre. Al di là della Manica, Theresa May ha bisogno di nuove elezioni perché il suo popolo chiede un capo di governo forte in grado di picchiare i pugni sul tavolo delle trattative con Bruxelles. Un uomo,una donna sola al comando legittimata dal consenso popolare e quindi sottratta al tira e molla dei partiti.

Anche in Germania, dove vige un sistema proporzionale verso il quale guardano con interesse le forze politiche italiane, il disamore verso le ammucchiate della grande coalizione ha premiato nei sondaggi un alieno della politica politicante di Berlino: Martin Schulz, che viene dal Parlamento europeo ed è un europeista convinto in un Paese non tenero con l’Europa.

E i sostenitori del modello tedesco farebbero bene a guardare ai congressi della Cdu. Dove non si muove foglia che Angela Merkel non voglia. Chiedere ai suoi oppositori, da Friedrich Merz nel 2000 a Norbert Röttgen nel 2010. Spariti, uno si è ritirato dalla politica l’altro è andato a Canossa e ha chiesto perdono. La realtà non lascia spazio a dubbi: opposizione interna non ce n’è. Jens Spahn, dato come suo successore in pectore, è un protetto del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, critica la politica sui rifugiati, ma sa stare ligio nell’ombra. Altro che gli scissionisti del Pd.

Va dato atto a Matteo Renzi di aver posto il problema all’interno della sinistra, cioè di quella parte politica che sembra più esposta al rischio del «divisionismo». Prodi cadde per mano di prime donne alla Bertinotti ed era sotto scacco di gente come Franco Turigliatto, leader della sinistra anticapitalista, ignoto ai più e però con in mano i destini di un governo della Repubblica. Vicende che hanno contribuito a dare del nostro Paese un’immagine di inaffidabilità. Matteo Renzi ha il difetto di porre sempre se stesso al centro del dibattito, ma il problema della cultura di governo c’è tutto, ed è italiano.

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