Usa-cina, l’oriente
bomba a orologeria

È certo solo un caso, ma il fatto che la Corea del Nord abbia lanciato il suo diciassettesimo missile dell’anno, in grado di colpire addirittura l’Alaska e le Hawaii, poche ore dopo che Trump aveva telefonato al presidente cinese Xi per avvertirlo che, se Pechino non manteneva l’impegno di premere su Pyongyang perché cessi la sua corsa al riarmo nucleare, l’America avrebbe provveduto da sola, aggrava fortemente le tensioni nell’Asia orientale. Qualcuno teme che possa essere la fine del buon rapporto (anche personale) che Trump credeva di avere instaurato con Xi in occasione del loro incontro di maggio a Mar a Lago e della fiducia che aveva riposto pubblicamente in lui perché lo aiutasse a risolvere il problema nord-coreano imponendo nuove misure che mettessero Kim con le spalle al muro.

Invece, nel mese trascorso da quel colloquio, la Cina ha fatto poco o nulla, un po’ perché, alla fine dei conti, l’atomica nordcoreana non minaccia lei ma gli Usa e i suoi alleati Giappone e Corea del sud, un po’ perché teme che «strangolando» l’economia di Pyongyang (che pure è nelle sue possibilità) possa provocare il collasso del regime, con relativo esodo di profughi verso il suo territorio ed eventuale riunificazione con Seul.

Per aggravare ulteriormente lo scontro, il lancio del più potente missile finora sperimentato da Kim e la denuncia americana dell’inerzia di Pechino cade in un momento in cui la tensione tra Cina e Usa è già molto alta.

Nelle ultime settimane Trump, per dimostrare che non scherzava, ha infatti venduto armi per 1,4 miliardi a Taiwan, adottato sanzioni unilaterali contro una banca, una ditta di import-export e due uomini d’affari cinesi sospettati di traffici illeciti con Pyongyang e soprattutto ha inviato la fregata lanciamissili «Stetham» nelle acque del Mar Cinese Meridionale che Pechino, nonostante un verdetto contrario dell’Alta Corte dell’Aja, considera sue e dove ha costruito alcune isole artificiali dotate di aeroporto, porto e varie altre attrezzature militari. Pechino si è infuriata, parlando di «seria provocazione politica e militare che viola la sovranità cinese». Washington ha replicato denunciando, per la prima volta da quando Trump è presidente ed ha espresso pubblicamente la sua fiducia in Xi, le frequenti violazioni cinesi dei diritti umani.

L’America si trova di conseguenza in una situazione molto delicata. Il suo rapporto con la Cina è talmente articolato (Pechino, tra l’altro, possiede una bella fetta del suo debito pubblico) che non può rischiare una rottura. La Corea del Sud, da sempre sua fedele alleata, ha da poco eletto in Moon Jae-in un nuovo presidente di sinistra, che si è affrettato a mettere il veto all’avanzato sistema antimissili che gli Usa stavano installando sul suo territorio ed è favorevole all’apertura di un dialogo con la Corea del Nord. Anche Trump, in una delle sue esternazioni estemporanee su twitter, si era a un certo punto detto disposto a incontrare Kim, ma difficilmente potrà farlo dopo che i nordcoreani hanno «liberato» dopo 17 mesi di prigionia lo studente americano Otto Warmbier in condizioni tali che è morto poco dopo il ritorno a casa. L’unico su cui può contare veramente è il premier giapponese Abe, che si sente minacciato dalla macchina da guerra nordcoreana ancora più di lui e sta pensando a sua volta di dotarsi dell’arma nucleare.

La possibilità più realistica per l’America è di mettere sulla lista nera, rendendo loro difficile operare sul piano internazionale, tutte le banche e le società cinesi (come la banca di Dandong, situata sul confine coreano) che ancora fanno affari con Pyongyang. Per Kim sarebbe un colpo durissimo, ma probabilmente non sufficiente a fermare il suo sforzo di trasformare la Corea del Nord in una media potenza nucleare. In ogni caso, acuirebbe, con conseguenze imprevedibili, le tensioni con la Cina, che proprio in queste ore sta stringendo i rapporti con l’altra grande antagonista di Washington, la Russia.

Siamo, insomma, in un momento delicato, che sembra avvalorare le previsioni di coloro che ritengono che, se dovesse scoppiare una nuova guerra, sarebbe nello scacchiere dell’Asia orientale.

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