Usa-Trump, al via
la crisi del rigetto

Mai nella storia americana era successo che, ad appena due mesi dal suo insediamento, il tasso di gradimento di un presidente scendesse al 37 per cento, cioè che anche un quarto di quelli che l’avevano votato gli voltassero le spalle così presto. Le cause della crisi sono molteplici: in parte la colpa è dello stesso Trump, che continua a complicarsi la vita twittando sui più vari argomenti come se fosse un cittadino qualsiasi, raccontando spesso cose non vere, senza rendersi conto che le sue parole vengono ormai pesate nel mondo intero; in parte è del suo staff che, con alcune importanti eccezioni, non si sta dimostrando sempre all’altezza del suo compito, un po’ per inesperienza e un po’ per faziosità; in parte è del partito repubblicano, che dopo avere accettato con riluttanza un presidente che non voleva, ha già cominciando a rendergli la vita difficile, opponendosi sia da destra, sia da sinistra al disegno di legge con cui il presidente intende modificare l’Obamacare e storcendo il naso di fronte al suo progetto di bilancio; in parte è dei media, che continuano a essere schierati quasi compatti contro di lui, cogliendo ogni pretesto per criticarlo o addirittura ridicolizzarlo, al punto che il più noto degli opinionisti americani, Thomas Friedmann del New York Times, ha scritto una lettera aperta ai cinque ministri considerati «più ragionevoli» esortandoli a «imbrigliare» The Donald per il bene del Paese.

Né i guai di Trump finiscono qui. Il Congresso, che pure è a maggioranza repubblicana, ha dato il via libera a una inchiesta sui rapporti che i collaboratori del presidente avrebbero avuto durante la campagna elettorale con uomini di Putin, notoriamente deciso a ostacolare Hillary Clinton. Per adesso è venuto fuori poco o nulla che possa portare a un tentativo di impeachmment, ma se risultasse che Trump si è in qualche modo avvalso della collaborazione dello Zar sarebbero guai grossi. Per difendersi, e forse anche per distrarre l’opinione pubblica, il presidente ha accusato Obama di averlo fatto spiare durante la sua corsa alla Casa Bianca, ma il direttore dell’Fbi (che pure è un repubblicano) ha replicato seccamente che non esisteva alcun indizio di una simile operazione.

Nonostante gli sforzi del segretario di Stato Tillerson, che ha preso a girare per il mondo per rassicurare alleati e avversari, sulle idee del presidente in materia di politica estera continua a regnare una grande confusione. All’inizio, sembrava che volesse ad ogni costo riavvicinarsi alla Russia, ma forse anche a causa dei sospetti ingenerati dalla inchiesta nulla si è mosso: l’invito allo Zar a visitare Washington non c’è stato, dell’abolizione delle sanzioni per l’Ucraina non si parla più e la spesso evocata «sacra alleanza» contro l’Isis è rimasta sulla carta.

Al contrario, i rapporti con la Cina, che all’inizio sono stati decisamente conflittuali, con la minaccia di Trump di imporre dazi proibitivi alle merci cinesi e di abbandonare la politica nixoniana di una sola Cina, sono migliorati al punto che tra un mese il presidente Xi sarà ospite di The Donald nel suo ormai celebre resort di Mar a Lago in Florida.

Al di là della pretesa – per una volta giustificata – che gli alleati della Nato mantengano l’impegno di portare le spese per a difesa al 2 per cento del Pil, anche l’approccio della nuova amministrazione all’Europa è poco chiaro: l’incontro con la Merkel è andato male, come dimostra la storia della mancata stretta di mano, e non si capisce in quale misura Trump simpatizzi per le forze populiste. Tutto ciò non autorizza ancora a pensare – come fanno invece già molti «liberal» americani – che la presidenza Trump si risolverà in un disastro. Ma, per evitarlo, è certamente necessaria una correzione di rotta.

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