Raggi tira il fiato
Grillini inossidabili

Nel bel mezzo di «Rimborsopoli» e delle peripezie dei candidati da espellere, finalmente arriva una bella notizia anche per Luigi Di Maio: il giudice ha archiviato la posizione di Virginia Raggi, prima cittadina della Capitale, imputata per la promozione di Salvatore Romeo da semplice impiegato del Comune a capo della segreteria del sindaco con stipendio triplicato, nomina che secondo l’accusa sarebbe stata connessa ad alcune polizze-vita stipulate a favore della Raggi dal medesimo Romeo.

Accusa infondata e dunque cancellata, scrive il Gip nell’ordinanza in cui anzi si sottolinea la correttezza del comportamento amministrativo del sindaco. In realtà, per Virginia resta in piedi il procedimento più importante e pericoloso, quello della nomina a dirigente del fratello del suo ex braccio destro e mentore Raffaele Marra, a suo tempo arrestato per corruzione e poi rimesso in libertà. Ma di questo si parlerà più avanti.

Quel che conta oggi per la Raggi è dire che è finita «la campagna di fango» nei suoi confronti, e ha ragione a felicitarsi con se stessa, liberandosi di un peso umano e politico. Ma nelle sue parole è mancata la riflessione sull’uso fin troppo disinvolto che viene fatto degli avvisi di garanzia, delle indagini e dei procedimenti giudiziari (anche quando sono ben lontani dall’arrivare ad un esito) per fini di lotta politica, di delegittimazione di avversari additati al pubblico ludibrio e fatti bersaglio di quel vasto rancore sociale che sta avvelenando la società italiana. Tutte metodiche politiche di cui, diciamoci la verità, i Cinque Stelle hanno fatto e fanno larghissimo uso, a torto o a ragione, scattando a reclamare: «Dimissioni!» a carico di chiunque venga anche solo citato in una intercettazione o in un articolo di giornale.

Il caso di Virginia Raggi, finita vittima di un meccanismo di cui i suoi compagni sono spesso artefici, dovrebbe aiutare alla maturazione di un movimento che troppe volte fa venire in mente le tricoteuses, le nonne della rivoluzione francese che, sferruzzando ai piedi della ghigliottina, esultavano al cadere nella cesta di vimini di una testa mozzata, qualunque testa.

Una maturazione che dovrebbe portare a migliorare il sistema di selezione della classe dirigente e parlamentare del movimento: i casi di cui si riempiono in questi giorni le cronache insegnano qualcosa. Ma è interessante notare che le peripezie cui accennavamo più sopra non sembrano spostare granché l’asticella che segna l’indice del patrimonio elettorale dei pentastellati. Che resta sempre sostanzialmente fermo al suo posto, qualunque cosa accada.

Tanto per fare un esempio: Roma, proprio Roma. La gestione amministrativa della Raggi è largamente al di sotto delle necessità della Capitale che vive una stagione di declino ormai noto a tutti, in Italia e purtroppo anche nel mondo, eppure il consenso elettorale di chi amministra il Campidoglio non si sposta. Tanto è vero che nelle recenti elezioni municipali ad Ostia, la terra martoriata dalla mafia delle famiglie rom, è stata eletta la candidata grillina e battuta quella del centrodestra quando tutti avrebbero previsto il contrario.

Ciò vuol dire che il M5S resta il sicuro interprete di una larga fetta della società italiana che, anche rancorosamente, vede nel «nuovo» l’unica possibilità per uscire dalla palude in cui è precipitata la Seconda Repubblica, e non c’è accusa di incompetenza, errore sui congiuntivi, incapacità amministrativa, goffaggine nella scelta delle persone, che possa smuovere questa speranza: «Fateli lavorare, meglio loro di quegli altri» si legge su Facebook e si sente dire, almeno per ora, nei mercati. Un elemento di realtà su cui gli altri partiti dovrebbero, a loro volta, seriamente riflettere.

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