Vitalizi e bonus
Politica sfiduciata

La discussione in aula a Montecitorio sulla proposta di legge che riguarda il cosiddetto «vitalizio parlamentare» o «rendita vitalizia» ha un valore più simbolico che reale. Infatti i vitalizi dei deputati e dei senatori – cioè le pensioni, anche se concettualmente le due cose non sono equiparabili – nei fatti sono stati già aboliti dal 2012: la legge ora in questione si limita a perfezionare il sistema rendendolo in tutto e per tutto identico alle pensioni dei dipendenti pubblici, dal calcolo contributivo alla data di pensionamento, facendolo rientrare nei criteri della legge Fornero.

Quando modifica qualcosa di sostanziale – e cioè il trattamento degli ex parlamentari – applica una retroattività che, qualora passasse definitivamente l’esame parlamentare anche al Senato, cadrebbe sicuramente sotto la scure della Corte Costituzionale. Ma, dicevamo, è il simbolo quel che conta in questa operazione di «sobrietà parlamentare». I vitalizi sono diventati uno dei più odiati «diritti» dei politici: sono stati indicati come un inaccettabile privilegio, un regalo fatto alla Casta, una prebenda non guadagnata. Sui vitalizi si sono imbastite campagne elettorali, fatte trasmissioni, scritti articoli di giornali, pubblicati libri di grande successo, costruite infine preziose carriere di moralizzatori a tempo pieno. Il vitalizio è il bersaglio di una campagna di odio nei confronti di una classe politica e parlamentare, quella della Seconda Repubblica, via via più screditata, impotente e per nulla autorevole. In fondo, chi mai si sognò di contestare la pensione-vitalizio di De Gasperi, di Togliatti, di Nenni, che pure erano «d’oro», come si direbbe oggi, tanto dorate da far arrabbiare Pertini che minacciò le dimissioni da presidente della Camera per bloccarne l’aumento. Ma nessuno fiatava su Moro o Berlinguer, anche se il vecchio vitalizio era davvero costruito per garantire al politico uno status superiore al comune cittadino, tale da metterlo al riparo dalle tentazioni, e quindi assai opulento.

Nel tempo, un po’ la crisi economica e l’impoverimento generalizzato degli italiani, un po’ lo screditamento dei parlamentari, hanno trasformato il vitalizio in un totem da abbattere. Anche quando, come adesso, il totem ha perso quasi tutte le piume: non fa niente, bisogna lo stesso farne un falò e prenderne il merito. Grillo e i suoi – ma anche la Lega post-bossiana, la sinistra radicale del dopo Vendola, i Fratelli d’Italia – hanno agitato la bandiera anti-vitalizi per combattere i «signori del potere». Il Pd ha avuto dapprima un atteggiamento abbastanza restio, poi si è intestato a sua volta l’operazione moralizzatrice tanto che la proposta che si vota oggi alla Camera ha come proponente uno dei primi rottamatori renziani, Matteo Richetti, che è riuscito a portare i grillini sul suo terreno riuscendo così a non inseguirli. Questo dunque è il simbolo: togliere le piume al potere, dove le piume sono soprattutto i soldi. Un’Italia ancora incredula di essere quasi uscita dalla crisi e colma di rancore, odia i privilegi, veri o presunti che siano, anche laddove non sia il contribuente a pagare, ma gli azionisti. Quanto scandalo hanno fatto i venticinque milioni di liquidazione di Flavio Cattaneo dimessosi da amministratore delegato della Telecom, cioè di una società tutta privata? Soldi che i cittadini non riescono comunque ad accettare e che del resto sono ben lontani da quel che diceva il grande Adriano Olivetti quando ammoniva i capi d’azienda a non guadagnare più di dieci volte dei loro operai (Valletta, il dominus della Fiat, guadagnava trenta volte lo stipendio del suo dipendente meno pagato, un confronto impossibile con Marchionne e i suoi bonus plurimilionari).

Il punto è sempre lo stesso: il popolo se la prende con la classe dirigente nel suo complesso – politica, economica, sindacale, culturale, amministrativa, funzionariale – perché pensa che i vantaggi che ne rendono agiata la vita non corrispondano ad un vero e proprio servizio al pubblico, alla nazione, al consumatore. Si potrebbe chiamarla «invidia sociale» ma sarebbe un modo banale per liquidare qualcosa di più complesso e profondo che riguarda il disagio sociale e l’incertezza che dieci anni di crisi, la globalizzazione, la precarizzazione dei rapporti hanno instillato nella mente della gran parte della popolazione, anche di chi un tempo si sentiva tranquillamente protetto (pensate ai bancari). Quel che c’è da ricostruire dunque è l’edificio immenso della convivenza sociale, basato sulla fiducia del popolo e sull’onesto servizio pubblico delle sue élite. Ma da dove cominciare?

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