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Lunedì 23 Settembre 2013
Pandolfi racconta la Germania:
«I miei anni con Schmidt e Kohl»
di Franco Cattaneo
Alla vigilia del voto in Germania, Filippo Maria Pandolfi, figlio della miglior pedagogia europeista, riavvolge il nastro della memoria. E con la testa, ma anche con il trasporto dalla nostalgia, ritorna sui suoi passi: gli anni vissuti in Europa, a tu per tu con i Grandi.
Alla vigilia del voto in Germania, Filippo Maria Pandolfi, figlio della miglior pedagogia europeista, riavvolge il nastro della memoria. E con la testa, ma anche con il trasporto dalla nostalgia, ritorna sui suoi passi: gli anni vissuti in Europa, a tu per tu con i Grandi. Con un parterre de roi. In questa intervista sfilano personaggi come Jacques Delors, il cattolico socialista francese che ha guidato la Commissione europea in tutta la lunga stagione che ha preparato la nascita dell'euro; Helmut Schmidt, il cancelliere socialdemocratico, che con il linguaggio di oggi definiremmo un tipico esponente del riformismo continentale; e su tutti Helmut Kohl, il grande cancelliere democristiano della riunificazione tedesca.
Pandolfi è stato parte di questo mondo: prima come ministro del Tesoro e delle Finanze, poi come vicepresidente della Commissione europea (da inizio 1988 alla primavera 1993), nel ruolo di commissario alla Ricerca, sviluppo tecnologico e telecomunicazioni e soprattutto con la delega agli incarichi speciali. L'arco di tempo da prendere in considerazione va dagli anni '70 alla caduta del Muro di Berlino, nel novembre dell'89, alla riunificazione tedesca del 3 ottobre 1990, alla fine del comunismo e all'implosione dell'Unione Sovietica. Stiamo parlando degli ultimi capitoli del secolo breve, dell'archiviazione della guerra fredda, di ciò che ha preparato l'esaurirsi del condominio Usa - Urss e del lancio della globalizzazione che stiamo vivendo. Ma per entrare nella Grande Storia bisogna illuminare l'anticamera di questo passaggio epocale: gli anni '70 e quasi tutto lo scorcio degli '80. Con il presidente americano Richard Nixon finisce l'era dei cambi fissi e della centralità del dollaro, mentre la guerra del Kippur e la crisi petrolifera precipitano l'Europa e il mondo occidentale nell'austerity.
L'Italia, che sta vivendo la stagione degli anni di piombo del terrorismo, deve fronteggiare il galoppo dell'inflazione e tenere sotto controllo i conti pubblici. E nel frattempo la Cee (allora si chiamava Comunità economica europea e non ancora Unione) studia un nuovo meccanismo di cambi flessibili: il Sistema monetario europeo (Sme), la cui evoluzione porterà poi all'euro. Ecco: provate a mettere insieme tutti i tasselli del puzzle e troverete la complessità e la pesantezza della Storia, ma anche lo sguardo lungo e lungimirante di una generazione di leader di rango. L'esperienza personale sul campo consente quindi a Pandolfi uno sguardo disincantato e riflessivo sui guai attuali dell'euro innescati dalla Grande Crisi e dalla deriva dei debiti sovrani. Ma anche un'analisi pacata sulla Germania di oggi, accusata di aver imposto un'austerità cieca e a sua volta destinataria di una germanofobia montante.
In questo quadro nevralgico, come si collocano le elezioni tedesche?
«Certo, le elezioni tedesche sono elezioni naturalmente importanti, perché importante è la Germania a livello mondiale e soprattutto a livello europeo. Ma eviterei drammatizzazioni. È vero: incombono ancora gli effetti della crisi finanziaria ed economica. Ma la Germania, occorre ricordarlo, è un Paese economicamente forte e politicamente affidabile. L'opinione diffusa, sul piano internazionale, porta a ritenere che i risultati elettorali non dovrebbero determinare difficoltà particolari per la Germania. È probabile».
D'accordo, ma oggi nel bersaglio delle critiche c'è la politica di questa Germania, cioè di quella guidata da Angela Merkel.
«In un momento in cui è ancora acuta la sofferenza per la crisi finanziaria ed economica che ha colpito il mondo, la via d'uscita, che comincia a intravedersi, appare sempre più fondata su un equilibrato rapporto tra rigore e crescita. Una politica di crescita viene direttamente incontro ai bisogni collettivi: produzione, occupazione, salari, redditi, sviluppo e così via. Ma la crescita sicura è compatibile con il disastro dei conti pubblici? Ecco perché occorre anche una politica di rigore».
Eppure la posizione della Merkel è parsa ingiustificatamente rigida: ha giocato, nel suo atteggiamento, qualche pregiudizio sulla situazione dell'Italia?
«Qualche spunto polemico può esserci stato. Non credo però a un pregiudizio ostile all'Italia. Conta la realtà dei fatti. Nel nostro Paese, siamo ad un rapporto debito - Pil superiore al 130 per cento: secondo le stime del Tesoro, toccheremo il 132 per cento nel 2014. Nella graduatoria negativa siamo secondi solo alla Grecia. Non c'è strada possibile di crescita senza una simultanea politica di rigore. Ne so qualcosa personalmente. Nei miei tre anni di ministro del Tesoro (1978-1980), bloccai il livello del debito sul Pil intorno al 58,5 per cento: fu un fattore di crescita. Dopo di me in soli due anni il livello del debito salì di sette punti: cominciò così la rincorsa verso l'alto. Possiamo oggi lamentarci di qualche richiamo della Merkel? Credo proprio di no. A parte il fatto che una notevole sintonia si è stabilita tra la cancelliera tedesca e i due ultimi presidenti del Consiglio, Mario Monti ed Enrico Letta».
A prescindere dal caso italiano, c'è anche chi rimprovera alla posizione tedesca un difetto di solidarietà europeista: pensiamo alle difficoltà dell'ultimo decennio. È un'opinione fondata?
«In questo caso la verità sta dalla parte opposta. Con la fine ingloriosa delle ambizioni legate al trattato costituzionale, creato dal lavoro della Convenzione, firmato in Campidoglio nell'ottobre 2004 e bocciato dal no del referendum francese e di quello olandese, si apre a metà del 2005 una lunga pausa di riflessione, espressione gentile per dire incertezza totale sul modo di uscire da una crisi istituzionale senza precedenti. La svolta avviene, dopo quasi due anni, con il semestre di presidenza tedesca. Sono determinanti la visione e l'impulso di Angela Merkel. Per sua iniziativa, si coglie l'occasione delle celebrazioni dei cinquant'anni dei Trattati di Roma per presentare, il 25 marzo 2007, la Dichiarazione di Berlino, la cui sostanza è semplice e chiara: occorre ripartire, ripartire subito, firmare entro l'anno un nuovo trattato. Così andranno le cose. Nasce il trattato di Lisbona, che abbandona l'illusoria fuga in avanti del trattato costituzionale respinto, ma ne salvaguarda essenzialmente la sostanza dispositiva, ossia le regole di funzionamento dell'Unione».
Torniamo alla storia passata della Repubblica Federale Tedesca. Lei ha avuto come interlocutori due cancellieri: perima Schimdt, poi Kohl. Provi a descriverli.
«Il mio rapporto con Schmidt trae origine dalla sua determinazione, condivisa con il presidente francese Giscard d'Estaing, di porre fine alla caotica fluttuazione delle monete europee, determinatasi con l'abbandono del sistema di cambi fissi deciso da Nixon nell'agosto 1971, e di introdurre un regime di fluttuazione limitata e controllata. In Italia aveva iniziato la sua attività, il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Moro, il terzo governo Andreotti, il governo della solidarietà nazionale, con il Pci nella maggioranza parlamentare. Nel precedente governo ero ministro delle Finanze, nel nuovo divento ministro del Tesoro. La consumata cautela di Andreotti finì per lasciare a me il bandolo della trattativa, pubblica o riservata secondo i casi, con il cancelliere Schmidt. Fu quello un capitolo straordinario della mia attività ministeriale».
Ce ne può raccontare qualche particolare, anche per farci capire come si muovono trattative di tanta importanza, non solo per l'Italia, ma anche per altri Paesi e per il sistema economico internazionale? Erano soltanto contatti diretti o esistevano anche intermediari? Questa è una domanda che viene spontanea.
«Nel caso della trattativa di cui parliamo, Schmidt si serviva di uno strettissimo ed autorevole collaboratore, Manfred Lahnstein, allora Segretario di Stato alla cancelleria federale e in seguito ministro delle Finanze. Almeno una volta al mese veniva in Italia. Un paio di volte venne a Bergamo. Lo ricordo qui, nel mio studio, proprio qui dove ora è seduto lei: mi parlò di un incontro con Craxi, deludente. Non riuscì a convincerlo ad appoggiare in Parlamento la nascita dello Sme, il Sistema monetario europeo».
Vuol dirci come, alla fine, andarono le cose?
«Nacque, appunto, lo Sme, con decisione del Consiglio europeo adottata a Bruxelles a dicembre 1978. Dopo il rifiuto inglese, senza l'adesione italiana non sarebbe nato lo Sme, questo è certo».
Una trattativa complessa, dunque. Per quanto riguarda l'Italia, c'è stato qualche passaggio fondamentale?
«Certamente. L'incontro decisivo avvenne il 1° novembre a Siena. Apparentemente una tranquilla visita turistica, con i protagonisti accompagnati dalle mogli. In realtà, un lungo incontro notturno in prefettura. Un incontro a quattro, durato fino a poco prima delle tre: il presidente del Consiglio Andreotti, il governatore della Banca d'Italia Baffi ed io, da una parte, Schmidt, solo, dall'altra. Ne ho un ricordo vivissimo. Un cancelliere duro e intransigente, davanti ai silenzi di Andreotti e alle esitazioni di Baffi».
A proposito di ricordi, ne ha altri che riguardano il cancelliere Schmidt?
«Due in particolare, legati a due città: Washington e Bergamo. Washington: la storica sede del Fondo monetario internazionale, Fmi. Con le elezioni inglesi del maggio 1979, cade il governo laburista. Se ne va il Cancelliere dello Scacchiere, Denis Healey, che era anche presidente del Comitato ministeriale del Fondo monetario ("Interim Committee", come si chiamava allora). Ricevo pochi giorni dopo una telefonata di Schmidt: "Ti chiedo di essere il mio candidato alla presidenza dell'Interim Committee". Accettai. All'assemblea annuale del Fmi, che si tenne in ottobre a Belgrado, l'iniziativa di Schmidt ebbe pieno successo: fui eletto con 21 voti su 22 rappresentanti di altrettanti Stati. Tenni la carica per due anni, i due anni della mia permanenza al Tesoro».
Dieci anni dopo - parliamo di Bergamo - fu lei a ricordarsi di Schmidt. È così?
«Sì, esattamente così. Ero già a Bruxelles, alla Commissione europea. Mi adoperai perché l'Università di Bergamo gli conferisse la laurea "honoris causa" in Economia. La cerimonia, alla presenza di Schmidt, si svolse nell'ottobre 1989. Fu un momento molto bello, anche per me. Passeggiando per Bergamo Alta, mi disse una frase che non dimentico: "Bergamo era una figlia di Venezia, ma ha l'aria di essere stata molto più abile"».
Parliamo ora di Kohl, il Cancelliere cristiano - democratico della nuova Germania, della Germania unificata e libera dopo la fine dell'Europa bipolare. Suppongo sia stata per lei un'esperienza importante il suo rapporto con lui.
«È esattamente così, almeno per quanto riguarda il mio periodo di responsabilità ministeriali in Italia. I miei due periodi, come ministro dell'Industria prima e, poi, più a lungo come ministro dell'Agricoltura, mi consentirono eccellenti rapporti con i colleghi del governo tedesco: in alcuni casi fu importante l'intervento del cancelliere ed ebbi la prova della sua personale fiducia verso di me. Quando, nel 1988, si profilò la possibilità di una mia nomina a commissario europeo, entrarono in gioco due fattori importanti: l'appartenenza di Kohl alla grande tradizione democratico - cristiana della Germania federale (pensiamo all'economia sociale di mercato), la stessa famiglia politica nella quale da sempre io avevo militato in Italia fin dagli anni della Resistenza, e la fede europeistica che aveva accompagnato sin dalle origini la comune militanza politica. Venni a sapere che Kohl puntava su una decisione del governo italiano per una mia andata a Bruxelles. Un episodio divertente rafforzò questa percezione. Eravamo a metà giugno del 1988. Un'affollata, calda serata romana di prima estate. Passeggiavo tranquillamente a due passi da Piazza Navona con un amico di sempre, l'onorevole Giovanni Giavazzi parlamentare europeo. Sento una voce forte che mi chiama. "Herr Pandolfi". Mi guardo intorno: con sorpresa vedo la sorridente figura di Kohl, accompagnato dall'ambasciatore tedesco. L'ambasciatore fa da interprete alle parole del cancelliere: "Oggi abbiamo parlato di lei. Lei è un caro amico. Le siamo riconoscenti. Mi auguro di vederla presto a Bruxelles". Un'importante conferma per me».
A partire dalla fine del 1988, lei lascia l'Italia per Bruxelles: commissario per la Ricerca e lo sviluppo tecnologico e vicepresidente della Commissione europea. Parliamo ancora di cose tedesche. Come si visse in quella sede la caduta del Muro di Berlino?
«Gli undici mesi da quella sera di giovedì 9 novembre 1989, data della caduta del Muro, al 3 ottobre 1990, il giorno che consacra giuridicamente e politicamente l'unificazione tedesca, sono stati il periodo più straordinario della mia esperienza umana. La caduta del Muro: una sera davanti alla televisione per vivere l'evento della nascita della nuova Berlino; la mattina dopo, alle 6, partenza per Bonn per un incontro programmato da tempo con la Confindustria tedesca; travolti dalla commozione, restiamo insieme per parlare solo del futuro della Germania; alle 13 sono di nuovo a Bruxelles».
Può parlarci delle prime valutazioni della Commissione?
«Per le 16 di quel venerdì, il nostro presidente Jacques Delors aveva da tempo convocato un "seminario di riflessione", così si chiamavano, per trattare questioni di carattere generale. Ma quel venerdì la questione era una sola: si andò avanti anche tutto il sabato. Ricordo il mio intervento, in tre punti: priorità assoluta all'unificazione tedesca, problema del passaggio da un'economia statalistica a un'economia di mercato, rischio di balcanizzazione per i nuovi Stati dell'Est. Il mio vicino di banco, l'olandese Franz Andriessen, responsabile delle questioni di politica estera, parlò invece dell'unificazione tedesca come di un evento da realizzare - così disse - più in prossimità della fine che dell'inizio del nuovo decennio. Riecheggiarono allora nella mia memoria affermazioni italiane di qualche anno prima: tra scetticismo, pessimismo ed ironia. Come, ad esempio: "Amo la Germania, per questo ne preferisco due a una sola". Oppure, in termini più radicali: "L'unificazione tedesca non si farà né in questo secolo, né nel prossimo, né mai"».
Guardiamo ora alla posizione del governo tedesco, alla linea del cancelliere Kohl, una linea che puntava senza esitazioni o reticenze su un rapido processo di unificazione.
«Il mio ricordo, su questo punto, è nettissimo. Siamo a pochi mesi dalla caduta del Muro. Il 23 marzo Kohl è a Bruxelles, per un lungo e decisivo incontro con la Commissione europea: sette ore, inclusa una colazione di lavoro. Una posizione forte e appassionata quella di Kohl. Si poteva continuare con una Germania ancora sotto occupazione militare per l'assenza, dopo 45 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, di un trattato di pace con le quattro potenze vincitrici? Con una Germania Est ancora sotto controllo sovietico e in una condizione insopportabile di arretratezza economica? Parlò dei costi enormi dell'operazione, ma non chiese soccorsi: chiese solidarietà politica da parte della Comunità europea. Guardava avanti, a un futuro di pace sicura. Mai più conflitti in Europa. Mai più una Germania aggressiva come quella che era stata all'origine delle tragedie di due guerre mondiali nella prima metà del secolo».
Uno sguardo forte e sincero alla storia d'Europa: un impegno di solidarietà e di pace, per sempre: questo mi sembra il senso ultimo della posizione di Kohl.
«Esattamente. Fummo colpiti dalle parole con cui Kohl chiuse il suo intervento in Commissione. Le ricordo a memoria: "Se qualcuno di voi mi chiedesse qual è la mia fede religiosa, non avrei esitazione a rispondere: sono nato cattolico - romano, voglio morire cattolico - romano. Se qualcuno mi chiedesse qual è la mia fede politica, la mia risposta sarebbe: la mia fede politica è l'amicizia franco - tedesca; con essa sono nato, con essa morirò"».
Un messaggio mandato a Mitterrand, che alcune voci davano per scettico sull'agibilità dell'unificazione tedesca?
«Non direi. Meno di un mese dopo l'incontro di Bruxelles, il 18 aprile 1990, Mitterrand e Kohl si rivolgono al primo ministro irlandese, presidente di turno del Consiglio europeo, per chiedere, con la formula inedita di una lettera a firma congiunta, la convocazione, accanto alla già convocata Conferenza intergovernativa chiamata a definire le regole di attuazione dell'Unione economica e monetaria, di una seconda e parallela Conferenza intergovernativa destinata a definire il sistema dell'Unione europea. Le due Conferenze si apriranno a Roma il 15 dicembre. Nel frattempo si era già realizzata l'unificazione tedesca. L'iniziativa politica franco - tedesca, a livello di istituzioni europee, la rafforza e la consolida».
Un'ultima domanda: i costi dell'unificazione rappresentarono veramente un peso straordinario per la finanza e l'economia della Germania occidentale?
«Certamente. Un peso, a giudizio di molti, insostenibile sul piano monetario, finanziario, economico. Ma Kohl non ebbe esitazioni. La storia gli ha dato ragione: la storia della Germania, la storia dell'Europa, la storia del mondo. Caduta la barriera tra le due Germanie, poteva sorprendentemente cadere la cortina di ferro che per quasi mezzo secolo era calata sul mondo intero. Con il discorso televisivo della sera del 25 dicembre 1991, Gorbaciov annuncerà la fine dell'Unione sovietica. Tutto ciò senza colpo ferire. Tornando alla nostra attualità, è naturale augurare buona fortuna agli amici tedeschi chiamati oggi a una importante prova elettorale».
Franco Cattaneo
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