Al lavoro, please

Il Jobs Act è legge. L’ultima battaglia ideologica del Novecento (come Kursk o El Alamein) si conclude a terzo millennio inoltrato lasciando alcuni ricordi indelebili come l’orchestra dell’Opera di Roma in concerto sul palco della protesta sindacale, gli ultimatum da generale Patton di Susanna Camusso e le fibrillazioni della sinistra Pd.

Quest’ultima per tre mesi ha definito incostituzionale il tentativo di allargare il mondo del lavoro ai giovani, rimasti tagliati fuori per colpa della crisi e delle rigidità corporative. Spesso la Costituzione viene utilizzata come grande muraglia per impedire le riforme, ma questa volta i custodi della carta hanno dimostrato di sbandierarla senza conoscerla.

Il presidente Mattarella ha firmato il decreto con silenzioso scorno di Civati, Fassina e giovani turchi, rendendo effettive le assunzioni a tempo indeterminato a tutele crescenti e stabilendo nuove regole per i sussidi di disoccupazione.

Il passo avanti sposta tutta l’attenzione sulle aziende. Renzi ha trattato bene le imprese, ha accolto buona parte dei desiderata. Ora tocca a loro fare gol, gli alibi sembrano finiti. L’introduzione del Jobs Act crea anche un’esigenza per proprietà transitiva: l’applicazione delle nuove norme alla pubblica amministrazione. Sarebbe legittimo farlo, anche se il ministro Madia fischietta alla luna per paura di dover sostenere una nuova battaglia novecentesca di retroguardia (con tutto il modernariato ideologico connesso) per il secondo tempo della legge.

Cittadini di serie A e di serie B. Qui l’incostituzionalità sarebbe perfino lampante. Ma scommettiamo che la sinistra Pd non la vedrà neppure con i Google glass?

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