Come una mosca sul muro

Qualche sera fa in pizzeria un ragazzo e una ragazza erano seduti a un tavolino, uno di fronte all’altra. Sembravano fidanzati, guardando oltre i boccali di birra ciascuno di loro cercava gli occhi dell’amato. Questo per un minuto ogni quarto d’ora. Negli altri quattordici minuti erano impegnati a scrutare lo schermo dello smartphone.

Sempre più concentrati, sempre più compulsivi. Lei bisbigliava una frase, lui annuiva con dolcezza, ma stava mandando messaggi a qualcun altro. E riusciva a gestire questa dissociazione comunicativa come qualcosa di naturale, spontaneo. Per mia nonna sarebbe stata maleducazione, ma nel 2016 si chiama phubbing. Poiché gli americani tendono a dare un nome a tutto, hanno identificato anche il gesto con cui ci si esclude completamente dai radar (per strada, sul bus, in un’occasione pubblica), essendo troppo impegnati a socializzare sul telefonino. Phubbing, da phone e snubbing, vale a dire snobbare, trascurare, considerare l’altro come una mosca sul muro mentre si è concentrati sull’operazione più narcisistica e virtuale della terra: la socializzazione della propria autoreferenzialità. Questo crea un problema soprattutto ai più giovani: il distacco dalla realtà. Chiamare social un sistema che fabbrica solitudine è stato il delitto perfetto dei guru della rivoluzione digitale. Conviverci è necessario, indispensabile. Ma passata l’onda della moda si spera che i giovani comprendano l’inganno. Anche perché la convinzione che quattromila followers su Facebook siano un esercito di amici crolla davanti a una domanda: in quanti ci verrebbero a trovare se fossimo ammalati?

© RIPRODUZIONE RISERVATA