Deportati del posto fisso

Settemila insegnanti stanno risalendo la Penisola con una lettera d’incarico in tasca, pronti a fare il loro dovere alla ripresa delle lezioni.

Quest’anno c’è una novità: non sono più precari, ma sono di ruolo grazie alle assunzioni a tappeto (e scaglionate) pianificate dal governo Renzi nonostante più di una perplessità. Centomila docenti hanno certamente un costo notevole, ma la politica del ministero è stata ferma: risolvere un problema per sempre è una priorità. Di questi tempi la certezza di un posto fisso vale oro e anni di precariato dovrebbero rendere ancora più contenti questi uomini e donne che si apprestano a formare i nostri figli per far sì che siano almeno migliori di noi.

E invece no. Le lamentele sono diffuse, le distanze dal luogo di residenza alla sede sono percepite come un problema (eppure si parla si società della mobilità da almeno dieci anni) e per quella che i lavoratori privati percepiscono solo come una trasferta i potentissimi sindacati della Scuola sono arrivati a usare la parola «deportazione». A parte lo stridore del termine con ben più drammatiche vicende passate e presenti, lascia stupefatti l’indisponibilità a capire che oggi il lavoro va preso dove c’è. Ad Asti partendo da Matera? A Perugia partendo da Foggia? Così è, la faccenda non potrebbe ragionevolmente essere differente. Chi non ritiene interessante la proposta non ha che da uscire dalle graduatorie e cercare (giustamente dal suo punto di vista) un lavoro nelle strutture private a un passo dal quartiere. Tutto ciò ci sembra perfino banale. A meno che non si pretenda di vedersi recapitare gli studenti a casa.

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