I colleghi di Ilda

«Di fronte alla prospettiva della responsabilità civile, temo soprattutto la cattiveria dei miei colleghi». Firmato Ilda Boccassini. Più che un magistrato un’icona, erede di due stagioni insieme.

Quella della lotta alla mafia con Giovanni Falcone (era nel pool di Palermo e per andarci si staccò dal figlio di otto anni) e quella di Mani Pulite, portata avanti fino ai giorni nostri con quotidiana dedizione.

«La cattiveria dei miei colleghi», pronunciata da lei in una scuola di Bergamo, è una frase che suona in stereo e fa il giro d’Italia. Il cittadino normale può domandarsi: ma di che cattiveria si tratta?

Invidia, emotività? E se la teme lei che delle procure conosce ogni anfratto e ogni procedura, cosa dovrebbe dire chi da vent’anni aspetta un eventuale risarcimento anche solo morale? O chi si ritrova, talvolta, a dover rispondere a un teorema più che a un reato? La sottolineatura del pm più famoso d’Italia fa riflettere, anche perchè Ilda Boccassini non ha mai mostrato nella sua carriera debolezza per il circo mediatico e le sue regole perverse.

Ricordiamo, durante la Tangentopoli ferroviaria a La Spezia (era il 1996), il pomeriggio in cui arrivò per portare a Milano il dossier legato alle intercettazioni di Pacini Battaglia («Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato, anzi sbiancato»).

Davanti alla fungaia di telecamere e cronisti, invece di fermarsi a rilasciare interviste, disse agli uomini della scorta armati di mitraglietta: sgomberate la scala. Tosta la signora. Potrà avere ragione o torto, ma ci convince che una riforma della Giustizia è necessaria.

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