Il Poletti choosy

C’è chi colleziona francobolli e chi bucce di banana. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti sembra essersi iscritto a questo specialissimo club di allegri gaffeur il cui presidente ad honorem rimane Elsa Fornero, che definì un’intera generazione di ragazzi «choosy», schizzinosi. Come se la colpa del lavoro che manca fosse di chi non ha gli occhiali giusti per vederlo.

Adesso tocca a Poletti, che con la frase «meglio un laureato a 21 anni con 97 che uno a 28 con 110 e lode» ci fa sapere che il governo è nervoso. E invece di far scendere la disoccupazione giovanile con serie politiche di crescita preferirebbe cancellarla per decreto attribuendo un purchessia titolo di studio, prima possibile, a chiunque passi di corsa nei pressi di un’università. Invece (fatti salvi i fenomeni) ci sono laureati lunari a 21 anni e formidabili dottori a 26. Il presto e bene non funziona nello spolverare un soggiorno, figuriamoci nell’affinare un’esperienza culturale e formativa. Vorremmo rassicurare il perito agrario Poletti che l’epoca dei fuori corso che bivaccavano con l’eskimo è finita da tempo (sono tutti piazzati dalle sue parti) e che la fretta di sfornare laureati è tutt’altro che un bel segnale; significa deprimere la logica dell’eccellenza individuale per esaltare l’aurea mediocrità. Gli atenei costosi, aridi e schiavi dei numeri sono molto di moda, soprattutto nel tritacarne delle metropoli. Ma poiché nel nostro Paese la percentuale dei laureati sfiora il 29% (18% i maschi) con una media continentale attorno al 40% sarebbe meglio far sì che quei pochi fossero molto bravi. Sentita in un bar davanti a un ateneo di culto: «Se io andrei in montagna, metterei la sciarpa e il cappello». Caro ministro, la titolare dello svolazzo letterario poteva avere giusto 21 anni.

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