Il silenzio che urla

«Non ce la facevo a dire al mondo quanto soffrivo». Questa è la frase più tenera e definitiva pronunciata dalla ragazzina di 12 anni che a Pordenone ha tentato il suicidio per non tornare a scuola. Per non rivedere chi la discriminava, quel branco di bulli che la sbeffeggiava e la derideva.

«Non ce la facevo a dire al mondo quanto soffrivo». Il problema è esattamente questo: non c’è cucciolo più solo del cucciolo di uomo. È pazzesco perché i nostri ragazzi hanno tutto, sono tutto, vivono multimediali e circondati da una società che attorno a loro costruisce mondi dorati. Almeno questa è la grande illusione degli adulti, perchè in realtà siamo noi ad essere iperstimolati ma sconnessi. Loro sono sempre connessi ma travolti dal silenzio.

Dietro quegli auricolari che sembrano tappi per non ascoltare i rumori del mondo, i nostri bambini rischiano di diventare adulti da soli, sollecitati da stimoli esterni qualche volta fuorvianti e qualche volta velenosi. Soprattutto incapaci (perché disarmati) di sfuggire al grande equivoco dell’omologazione. A quell’età nessuno li educa a cogliere e ad apprezzare la diversità. Gli uguali sono più rassicuranti: stesse pettinature, stesse scarpe, stesse borse, stesso i-Phone, stessa custodia, stesse parole, stessi pensieri. Sennò non sei accettato. Ed ecco allora la violenza del silenzio, della battuta feroce, della cattiveria mefitica contenuta nei giudizi dei social.

Se non sei uguale sei solo, soprattutto sei sola. Perché la sfida è più femminile. Così, in silenzio, soffrono i nostri cuccioli, incapaci di chiederci aiuto. E noi, impegnati a tenere in piedi le nostre baracche, non troviamo il tempo per ascoltare quel silenzio che urla.

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