La bretelle
di Ben Bradlee

C’era una volta un giornale locale che si occupava soprattutto del perimetro del suo territorio. Normale, anzi scontato. Solo che nel territorio di quel giornale c’è la Casa Bianca, quindi gli effetti di ciò che avveniva lì erano planetari.

Ma in quella redazione nessuno si scomodava ad allungare l’occhio e il pensiero. «Il mondo oltre il Potomac non esiste», ripetevano i giornalisti. Poi al Washington Post arrivò Benjamin Bradlee, il direttore che ha trasformato il quotidiano in uno dei più autorevoli santuari dell’informazione mondiale. E lo ha fatto con un solo immutabile punto di riferimento sintetizzato nella frase: «La verità prima di tutto».

La prova più dura per quel giornalista in bretelle - morto martedì notte all’età di 93 anni, sazio di giorni - fu lo scandalo Watergate. È un capitolo noto, Woodward e Bernstein, le rivelazioni di Gola profonda. Oggi ci pare persino normale sovrapporre alla realtà i volti di Robert Redford e Dustin Hoffman nel film «Tutti gli uomini del presidente».

Ma c’è qualcosa di unico in quella partita, che si scopre osservando le foto di allora pubblicate per ricordare Ben Bradlee: il senso del gruppo. Alle riunioni c’era lui, c’erano i reporter e c’era Katherine Graham, l’editore. Stavano per mandare a casa un presidente degli Stati Uniti e facevano squadra. Senza distinguo, senza alibi, senza spostarsi per non entrare nella foto. «Le bretelle che tenevano su i miei pantaloni erano la squadra». Un bel messaggio. Oggi come allora ogni impresa, per essere vincente, ha bisogno di una squadra.

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