Le sue prigioni

Eppure Adriano Sofri avrebbe svolto un buon lavoro. Invitato a diventare consulente del ministro della Giustizia per migliorare le condizioni carcerarie, l’ex detenuto più famoso d’Italia è stato costretto a declinare, travolto da indignazione, riflessi condizionati e luoghi comuni.

Adriano Sofri avrebbe svolto un buon lavoro perché conosce le prigioni, le ha frequentate per nove anni, ha rischiato di lasciarci le penne e ha avuto il coraggio - mentre qualche suo complice scappava in Francia dopo la condanna definitiva per l’omicidio Calabresi - di presentarsi davanti al carcere di Pisa con una ventiquattrore, bussare e dire: sono qui a scontare la pena.

Giusta o sbagliata, l’Italia si è già divisa una vita fa. E chi ha partecipato da cronista a quei processi sa quanto la lobby di Lotta Continua fu prepotente e arrogante nel voler indirizzare l’opinione pubblica verso una e una sola verità. Gli amici di Sofri trattavano chi si limitava ad attenersi agli atti del processo come ieri alcuni esploratori dell’ovvio hanno trattato lui. «Con distratto disprezzo».

Eppure avrebbe svolto un buon lavoro perché in questi anni non c’è stato argomento che non abbia affrontato, nei suoi numerosi scritti, con eguale passione, eguale delicatezza, eguale competenza. È stato liquidato da una metafora: «Sarebbe come nominare Corona garante della privacy». E lui ha spiegato la situazione con un’altra metafora: «Un ministero che avesse svolto un’indagine sulla crocifissione avrebbe fatto bene a chiedere il parere del crocifisso al centro, poi del ladrone di destra e di quello di sinistra». In Italia il passato non passa mai, neppure a pena scontata. Peccato.

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