L’oblio di Google

di Giorgio Gandola

Farsi dimenticare è un attimo. Tranne che dai creditori e da Google, il motore di ricerca più grande del mondo, al quale la Corte europea di giustizia ha imposto di eliminare dalle pagine i link su «contenuti non più rilevanti».

Farsi dimenticare è un attimo. Tranne che dai creditori e da Google, il motore di ricerca più grande del mondo, al quale la Corte europea di giustizia ha imposto di eliminare dalle pagine i link su «contenuti non più rilevanti» di cittadini del continente che lo richiedano.

È la declinazione web di quello che la legge chiama diritto all’oblìo. Ed è un tema interessante non solo perché coinvolge un esercito di persone (diecimila richieste il primo giorno), ma perché riguarda il rispetto della privacy in un luogo prepotentemente pubblico come la rete.

Pretendere di farsi i fatti propri in Internet senza lasciare traccia è da illusi. Negli Stati Uniti la chiamano sindrome da Barbra Streisand, dalla vicenda della cantante che si ritrovò su un sito le foto di casa sua e fece mandare una lettera da un avvocato per farle rimuovere. Risultato, un attimo prima della cancellazione - con un clic - quelle foto furono replicate in tutto il mondo e Barbra crollò sfinita sulla sua poltrona chippendale, peraltro fotografata. Ora la faccenda cambia e la legislazione comincia a chiedere la protezione dei dati personali, passaggio che aiuterà anche certi siti d’informazione online ad adeguarsi alle regole deontologiche della professione.

Detto questo, chi pubblica su Facebook le gigantografie di un piatto di polenta e osei per celebrarne il dubbio lirismo ha già una percezione della privacy lievemente differente da chi non lo fa. E chi fa sapere senza remore i dettagli della sua vita diurna e notturna a persone che neppure conosce, sta già scrivendo qualcosa di simile a una liberatoria.

© RIPRODUZIONE RISERVATA