Omar, guardia privata

Lupo solitario. Omar Mateen, che domenica ha ucciso 49 persone in un locale gay di Orlando con un fucile automatico AR15 (nove milioni di esemplari in circolazione in America), viene chiamato così.

Fa parte di un esercito di ottocento uomini e donne nati negli Stati Uniti un centimetro al di qua della linea di demarcazione fra il bene e il male, fra un’esistenza normale e il terrorismo. Basta un passo per varcare la soglia. Basta una delusione, una frustrazione, poi procurarsi un’arma letale e immolarsi in un massacro è relativamente facile. Troppo facile. Per il giovane di origini afghane che prima di premere il grilletto ha dichiarato al 113 americano «fedeltà all’Isis», tutto è andato liscio, sempre. Era sulla lista nera dell’Fbi, aveva subìto fermi e controlli. Ma poiché non era stato trovato nulla ha potuto lavorare come guardia privata di una società che sorveglia palazzi del governo, ottenere un porto d’armi e avvalersi degli sconti per andare a esercitarsi al poligono di tiro.

Tutto questo sembra paradossale, uscito dalla sceneggiatura di un brutto romanzo da edicola ferroviaria. Eppure questo accade e tutto viene racchiuso dentro la parola più equivoca del mondo: sicurezza. Omar Mateen, il Breivik di Orlando, era pericoloso da tempo. S’è sposato nel 2009, ma dopo pochi mesi la moglie lo ha lasciato perché «arrivava a casa e mi picchiava perché la lavatrice non era finita. Una persona instabile». Ma libera di muoversi, organizzarsi, colpire. Come i fratelli Tsarnaev, i due ceceni che misero le bombe alla maratona di Boston. Come il pachistano che voleva fare una strage a Times Square. E come la coppia che s’è macchiata del sangue dei 14 disabili nella strage di San Bernardino. Con un’arma gemella e il marchio dell’Isis da spendere.

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