Quel libro fa acqua

Confondere vittime e colpevoli è un macabro sport dal quale vorremmo prendere le distanze. È la più moderna trappola del marketing: togliere il contesto a un fatto, far sparire lo scenario e gli effetti per puntare tutto sul prodotto.

Funziona nel commercio, ma ci sembra del tutto immorale adattare il sistema al libro di Francesco Schettino, campione dei navigatori spiaggiati, presentato qualche giorno fa a Meta di Sorrento tra ali di folla plaudente, come se si trattasse della nuova opera di Tom Wolfe o di Philip Roth.

La fatica letteraria s’intitola «Le verità sommerse» e ripercorre l’intera vicenda dalla sera dell’inchino al Giglio al «Torni a bordo c....» fino al processo e alla sentenza di primo grado, che condanna il comandante a 16 anni di carcere.

«Il mio unico errore è stato non morire nel naufragio», è la frase a effetto di Schettino, che allora mai corse il rischio, a tal punto da essere il primo (e non l’ultimo) a scappare dalla nave che imbarcava acqua. Un gesto da ignominia marinara, che in teoria avrebbe dovuto costargli il silenzio per il resto della vita, indipendentemente dagli esiti giudiziari.

Ma le regole del business imperano e il volto dell’uomo che ha fatto vergognare un intero Paese, in un gioco perverso di specchi ha la stessa visibilità e la stessa valenza di un eroe positivo. Così flash dei fotografi, richiesta di autografi e applausi. Tutto infinitamente triste, se non ci fosse un dettaglio ancora più imbarazzante.

Chi apre il libro ci trova per prima cosa una dedica: alle 32 vittime della Concordia. Come se non avesse contribuito anche lui a renderle tali, come se per un transfert psicologico guardasse quella tragedia da fuori, anzi dagli scogli. Cosa che, in definitiva, ha fatto.

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