Videogame a Bergamo
Cortesi e la sfida BerGame

Con il primo numero di Videogame in Bergamo inauguriamo una «rubrica nella rubrica» che andrà a scovare gli sviluppatori di videogiochi bergamaschi. In questa prima puntata abbiamo parlato con Francesco Cortesi, CEO di BerGame.

Nell’industria italiana esiste un settore – spesso sottovalutato – capace di generare un giro d’affari da 1,5 miliardi di euro. Sono i numeri monstre del mercato dei videogiochi, il cui trend nel nostro paese è positivo da ormai diversi anni non solo in termini di fatturato ma anche per quanto riguarda l’occupazione giovanile: stando ai numeri dell’ultimo censimento AESVI, l’Associazione che rappresenta l’industria dei videogiochi in Italia, infatti, si è passati da 120 studi di sviluppo nel 2016 ai 127 di oggi, con un’età media degli occupati di 36 anni.

E tra questi è possibile trovare anche qualche intraprendente bergamasco. Con il primo numero di Videogame in Bergamo inauguriamo una «rubrica nella rubrica» che andrà proprio a scovare questi silenziosi ma laboriosi orobici «artigiani del pixel». Altro che semplici giochini: è chiaro che (come testimoniano i numeri di cui sopra) i videogiochi possono rappresentare per la Bergamasca una vera e concreta occasione di crescita occupazionale, economica e – perché no – anche culturale. A noi l’onere e l’onore di raccontarlo.

Il primo a parlarci della sua avventura tra gamepad e codici di programmazione è Francesco Cortesi, 27 anni, grafico pubblicitario di formazione ma sviluppatore di videogame nel DNA, con il padre di Super Mario e Zelda, un certo Shigeru Miyamoto, quale fonte di ispirazione assoluta. Insomma, se ci si deve ispirare a qualcuno giusto farlo con uno dei più grandi. È chiaro. «Sulla carta sono un grafico pubblicitario – ci racconta Francesco – ho lasciato gli studi presto e prima d’intraprendere la strada dei videogiochi ho fatto qualche lavoretto di grafica e web design. Da 7 anni la mia attività principale è produrre videogiochi come programmatore. La mia formazione artistica è stata abbastanza istituzionale visto che ho frequentato l’Istituto C. Caniana di Bergamo, mentre per quella tecnica sono un autodidatta. Mi dedico anche all’organizzazione di corsi amatoriali per realizzare videogiochi e ultimamente al coding didattico per le scuole, sempre con uno sguardo al mondo videoludico».

Sè è vero che da qualche anno sono nate in Italia alcune scuole dedicate alla formazione di figure professionali per l’industria del videogioco, ad esempio la Digital Bros Game Academy di Milano, secondo Francesco sono soprattutto passione e intraprendenza a fare la differenza: «Un percorso di formazione istituzionale è sempre consigliabile, l’importante è non farci troppo affidamento: un pezzo di carta da solo non ti garantisce il lavoro, meglio affiancarlo ad un buon portfolio di progetti, anche se poco più che amatoriali. Lavorare in questo settore richiede una certa specializzazione e propensione personale, non è il tipo di lavoro momentaneo che puoi ritrovarti a svolgere casualmente dopo gli studi: lo devi desiderare».

Nell’immaginario collettivo il developer (così vengono chiamati i professionisti come Francesco dagli anglofoni) è il tipico «smanettone» che passa ore e ore davanti al PC, sia con il gamepad in mano che sui complessi codici di programmazione. Ma chi sviluppa videogiochi da mattina a sera ha poi il tempo, e la voglia, di giocarci? «Provare i giochi fatti da altri è più un’attività di formazione che di svago e in questo contesto provo di tutto, soprattutto casual game per smartphone e i giochi indipendenti per PC – spiega Francesco –. Per svagarmi, invece, prediligo i giochi gestionali e strategici come i classici Age of Empires, Stronghold, Roller Coaster Tycoon, Patrician. Mediamente quindi passerò almeno un’ ora al giorno davanti ai videogiochi, ma nelle giornate dedicate al debug (individuare e correggere gli errori ndr) praticamente passo tutto il giorno a giocare per segnare gli errori da correggere».

Francesco non è però un lupo solitario e insieme all’amico e collega Giorgio Olivas, game designer, ha fondato BerGame, start-up che sviluppa videogiochi per la formazione e la promozione pubblicitaria di attività per il mercato mobile e web. «Ho programmato i miei primi, rudimentali, videogiochi verso i 13/14 anni ma non avevo l’ambizione di farne un lavoro. L’idea è nata sette anni fa, quando io e Giorgio abbiamo pensato ad un social game e, intenzionati a realizzarlo, abbiamo presentato l’idea all’Incubatore d’impresa di Bergamo, che ci ha supportato», spiega Francesco.

Per concretizzare quello che viene pensato inizialmente solo su un foglio di carta in un videogioco vero e proprio sono necessarie molte risorse. Ecco allora la prima partecipazione come BerGame ad un bando regionale con l’aiuto dell’Incubatore. Tuttavia l’esito non è quello sperato e la richiesta di Francesco e Giorgio viene respinta. «È stata la prima di tante delusioni. Ormai ci eravamo messi in gioco e così abbiamo deciso di ridimensionare il progetto e portarlo avanti da soli». Ma – come si dice – a volte chiusa una porta si apre un portone e così «inaspettatamente, grazie all’Incubatore ci sono arrivate le prime richieste di lavoro su commissione, cosa che originariamente non avevamo assolutamente preso in considerazione. Anche se non erano i guadagni multimilionari sognati abbiamo cominciato a fare i primi ricavi».

In questi anni di attività Francesco e la sua BerGame hanno realizzato principalmente serious game (videogiochi educativi) per conto terzi e hanno avuto qualche interessamento per quanto riguarda gli advergame, i videogiochi pubblicitari «un prodotto però ancora troppo all’avanguardia per l’Italia: nessun contatto è mai andato in fondo. Proprio per una questione di budget ci siamo concentrati su videogiochi 2D piccoli ma di buona qualità che possano essere realizzati in poco tempo e rientrare nei budget di marketing delle PMI». E ora? «Abbiamo in cantiere videogiochi modificabili per il coding didattico nelle scuole elementari e medie. Attività che rientrano nel progetto Atomic, un linguaggio di programmazione didattico in italiano che ho creato in questi anni. Sto anche prototipando giochi basati sulla geolocalizzazione, in forma di app per smartphone e di piccoli aggeggi elettronici».

Lontanissimi anni luce dai riflettori dei grandi publisher americani, cosa significa sviluppare videogiochi nella piccola Bergamo? «A Bergamo c’è meno innovazione e meno apertura mentale anche solo rispetto alle vicine Milano e Brescia, e non c’è da stupirsi di essere in pochi. Comunque è un lavoro dove l’ubicazione fisica conta davvero poco, la sede è solo questione di prestigio: le richieste arrivano da tutta Italia». Le sirene dall’estero ovviamente si fanno sentire per Francesco, che però preferisce continuare a far crescere il suo progetto BerGame in Italia, nella sua Bergamo: «Mi arrivano spesso proposte dall’estero e la tentazione di accettare c’è. Però andare via dall’Italia lasciando ciò che sto costruendo qui sarebbe un po’ come arrendermi. I guadagni da noi non sono entusiasmanti ma ho deciso di costruire qui la mia vita nella speranza che la situazione italiana si evolva per il meglio. Se tutti rinunciano a costruirsi un futuro qua la situazione non migliorerà mai».

Se rispetto ad altri paesi europei come Regno Unito e Francia (nonostante in questi anni qualcosa si stia muovendo, sia per quanto riguarda la scena indie che quella più tradizionale) il nostro paese è ancora un passo indietro è un problema anche, e soprattutto, culturale, osserva Francesco: «Gli italiani sono rinomati nel mondo per la loro genialità e creatività. Tanta arte, pochi videogiochi: è assurdo. Mancano gli investimenti ma soprattutto manca la propensione a investire in questo settore, sia nel pubblico che nel privato. Se nei decenni passati l’Italia avesse investito sul videogioco come per il cinema oggi avremmo una produzione videoludica fiorente. Grazie ad AESVI c’è in atto una buona sensibilizzazione sul tema, purtroppo però a tante parole seguono pochi fatti. A parte i big del settore, in queste condizioni pochi eletti riescono ad avere successo. In generale in Italia è più importante instaurare le relazioni giuste, il cosiddetto “fare rete”, che essere bravi. In questo settore devi prima essere bravo e poi avere anche la rete di conoscenze; è dura emergere se non hai una carriera lunga alle spalle. Partire da zero è molto difficile ma non impossibile, noi di BerGAME lo abbiamo sperimentato in questi anni».

© RIPRODUZIONE RISERVATA