L’esilio di Dio di certi laici
e la lobby di certi cattolici

Paolo Flores d’Arcais è il «laico dell’anno». Cosi l’ha proclamato la Consulta torinese per la laicità delle istituzioni.

Durante la premiazione ha tenuto un discorso, in gran parte pubblicato da «La Repubblica», che merita di essere ripreso. Niente di nuovo per chi, più o meno occasionalmente, segue gli interventi del direttore di MicroMega. Già il titolo è significativo: «La democrazia deve chiedere l’esilio di Dio». La tesi è nota: in pieno disaccordo con Habermas, secondo il quale l’argomento Dio deve avere piena legittimità nella discussione pubblica, Flores d’Arcais pone un aut aut: «o l’esilio di Dio dall’intera sfera pubblica o l’irruzione del suo volere sovrano – dettato come sharia o altrimenti decifrato – in ogni fibra della vita associata».

Di qui l’affermazione, netta e indiscutibile quasi come un dogma, che è «inerente alla democrazia l’ostracismo di Dio, della sua parola e dei suoi simboli, da ogni luogo dove protagonista sia il cittadino: scuola compresa» e l’esigenza di mandare Dio «nell’esilio dorato della sfera priva della coscienza». Sono posizioni, ribadite come un mantra, che mi paiono fuori dal tempo, ispirate, nel profondo, ad una secolarizzazione di stampo illuminista. Ben lontana dall’impostazione e dall’esperienza del costituzionalismo moderno che si pongono come limite alla politica (imponendole una connotazione democratica) e alla religione (imponendole di rinunciare ad ogni pretesa di assolutismo).

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