Feltri, blues in memoria
di due maestri bergamaschi

Caro direttore, ti chiedo ospitalità per rendere una testimonianza, anzi due. Alcune settimane orsono lessi sul tuo giornale che Paolo Arzano era morto. Mi prese un colpo. Poi compulsai l’articolo e verificai che egli al momento dell’addio aveva 87 anni. Non è stato soffocato dalla balia. D’altronde, l’unico modo per vivere a lungo è invecchiare.

Ne so qualcosa. Ciò, tuttavia, non mi ha impedito di provare un forte dolore. Inoltre, sono stato assalito da un vago senso di colpa. Devi sapere, caro Giorgio, che fu lui ad agevolarmi allorché intendevo fare il giornalista professionista. Mi segnalò alla «Notte», edizione di Bergamo, all’epoca curata da Guido Dietrich, che non ho dimenticato. Cosicché riuscii ad entrare nella corporazione degli scribi. La mia gratitudine è e sarà imperitura.

Frequentai Arzano per molti anni. Egli fu per me un maestro, mi insegnò ad amare la musica. Mi regalò un impianto stereo affinché potessi ascoltare dischi di jazz. Ogni anno a Ferragosto, mi invitava a cena. Mi incoraggiava a darci dentro, dicendo che avevo talento. Non era vero. Avevo soltanto voglia, una voglia matta di lavorare, di scrivere, di vivere raccontando la vita degli altri. Mi dispiace di non averlo abbracciato prima che se ne andasse via. Desidero esprimergli ora, se me lo consenti, il mio pensiero trascurabile: Arzano, sei stato per molti ex ragazzi della mia generazione un faro.

Paolo era più bravo a insegnare il mestiere che ad esercitarlo. Un professionista perbene e altruista che aveva l’esigenza del superfluo: in questo ci assomigliavamo. Tra me e lui c’era un segreto familiare. Non lo svelo. Adesso basta. Mi viene la strozza. Arzano per Bergamo, non solo per me, è stato un punto di riferimento. Consentimi di esprimergli pubblicamente un postumo riconoscimento, umile e sincero. Dei morti si parla sempre bene. Io di Paolo parlavo bene anche quando era al mondo, ma non abbastanza.

E di ciò sono pentito.Stamane, sempre leggendo «L’Eco», di cui il sabato e la domenica ­– i miei giorni di riposo, si fa per dire – non perdo un numero, ho appreso un’altra brutta notizia: è morto anche Franco Colombo, altro uomo che ha segnato positivamente la mia esistenza. Eravamo colleghi all’Amministrazione provinciale. Lui, quale secondo lavoro, faceva il critico cinematografico del tuo glorioso quotidiano. Io aspiravo a scribacchiare sui giornali per sentirmi meno scemo di quanto non fossi. Lo ammiravo molto. Di più, lo invidiavo in senso buono: desideravo emularlo. Ma non ne avevo la preparazione. Mi aiutò. Gli avevo confidato le mie ambizioni. Franco mi incitava. Mi dette qualche dritta e mi introdusse in redazione. Non mi sembrava vero. Correggeva i miei pezzi abborracciati. Sia come sia, grazie a lui, mite e civile, esordii con un articolo su Ermanno Olmi, allora giovanissimo, intitolato: «Il posto». Da lì in poi la mia strada fu in salita. Arranco ancora. Ma se non fosse stato per la mano che Colombo generosamente mi diede, sarei annegato negli uffici amministrativi della Provincia.

Insomma, senza Arzano e Colombo non so come sarebbe andata a finire per me, forse male, forse malissimo. Ecco perché la loro scomparsa mi spezza il cuore e non solo quello. Già la morte di Andrea Spada, il tuo più grande predecessore, mi stroncò. Ora, uno a volta, se ne vanno coloro con i quali avevo un debito, mai saldato. Capirai il mio stato d’animo, la mia voglia di piangere. Mi scuso con te e con i tuoi lettori per lo sfogo, e ti ringrazio per avermelo concesso sul tuo (un po’ anche mio) giornale.

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