La strage in Pakistan
e la cultura come nemico

Il nuovo attacco terroristico a una Università in Pakistan deve farci riflettere. Certo, immediatamente il pensiero va alle vittime, colpevoli solo del fatto di essere donne e uomini che cercavano, studiavano.

Questo evento ci richiama ancora una volta al fatto che la cultura, vale a dire la ricerca che in diversi ambiti cerca di scoprire qualcosa della vita dell’uomo e la condivisione della ricerca, vengono percepiti come una minaccia al pensiero unico, quello asservito al potere. Non so voi, però io sento questo evento tragico, insieme a tutti quelli che si sono succeduti ultimamente nel mondo, come una sorta di campanello d’allarme: siti archeologici distrutti, direttore di un sito decapitato, attacco a un museo, scuole in cui vengono uccisi studenti e docenti. Lo ritengo un campanello d’allarme perché penso che la cultura, in tutte le sue diverse forme, sia un’espressione fondamentale dell’esistenza umana che ci rivela qualcosa di radicale su noi stessi.

C’è qualcosa di gratuito negli eventi culturali, un’esperienza nella quale vieni preso e sei chiamato a rispondere per esprimere quella esperienza. È come se il mistero della vita ti si avvicinasse e chiedesse a te di dargli voce, figura. Una sorta di testimonianza nella quale ti ritrovi protagonista di un mistero più grande di te. Molto spesso questa esperienza è sovversiva rispetto alla vita media delle persone, però non è elitaria, perché vuole comunicare una dimensione della vita a tutti. Dove c’è cultura si semina libertà. Sarà per questo che la violenza terroristica tende a distruggere i luoghi della cultura. Ora, la cultura genera dibattiti, confronti, a volte anche aspri. Però i dibattiti stessi sono una forma di servizio all’esperienza che ha fatto sorgere un’idea, un verso poetico, una figura, una nota, una scoperta scientifica, che mette in luce un aspetto della vita. Dove si tende a sopprimere questa vena vitale e rivoluzionaria della cultura, significa che il potere la ritiene pericolosa. Non si dovrebbe mai cercare di addomesticare questo aspetto destabilizzante della cultura, perché esso apre a possibilità che sino a un attimo prima non avremmo visto e compreso.

Una società civile dovrebbe sempre tenere presente questo aspetto dell’esperienza culturale. Sono stati molti in passato che hanno pagato sulla propria pelle le conseguenze di ciò che avevano svelato dell’esistenza: poeti, scienziati, filosofi, letterati, artisti. Oggi noi diciamo che la cultura deve essere una risorsa del nostro paese. Però desideriamo anche che essa sia produttiva e risponda a obiettivi che vengono prefissati in base al costo dell’investimento fatto. Mi domando se, anche il nostro modo di interpretare l’esperienza culturale, non sia una nuova edizione dell’assoggettamento della cultura stessa a esigenze economiche e politiche. Noi non attacchiamo più le Università con i mitra in pugno, non distruggiamo più i siti archeologici, ma li facciamo diventare luoghi e occasioni di guadagno, senza però riconoscere che l’esperienza della meraviglia alla quale queste esperienze ci chiamano è precisamente il frutto della gratuità e della bellezza della vita da cui esse derivano, anche quando bruciano i nostri stereotipi sociali, economici e politici. Anche il più semplice artista, povero in canna perché nessuno lo riconosce, è testimone di questi eventi che donano ossigeno alla nostra vita e ci aprono al possibile e all’impensato.

In questi giorni ricorderemo coloro che sono stati vittime dell’attacco terroristico in Pakistan, ma domandiamoci anche se siamo ancora capaci di comprendere e rispondere alla gratuità, origine di ogni espressione culturale. Almeno, da queste tragiche esperienze, impareremo che essere donne e uomini di cultura non è una questione da salotto, ma è esperienza che introduce immediatamente al cuore dell’esistenza umana, della quale non possiamo essere che umili testimoni.

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