Schengen presidio
della vera Europa

Siamo alle prese con un’Europa contraddittoria e indecisa di fronte alle sfide che la travagliano. Lo scontro tra diverse prospettive, interessi configgenti, mentalità che non si coniugano, minacce esterne e crisi interne stanno scuotendo l’edificio comunitario, quel monumento senz’anima in cui la burocrazia, la tecnocrazia e le lobby sono spesso prevalenti sulle speranze dei popoli che pure la compongono, questa Europa.

In questa costruzione tuttavia il trattato di Schengen era una delle conquiste più ambiziose: la libera circolazione delle persone e delle merci è il presupposto di una vera unione. Ebbene, questa conquista, di fronte alla sfida migratoria e a quella del terrorismo – da non confondere l’una con l’altra – sta venendo meno. E quello che si è detto ieri al vertice dei ministri dell’Interno ne è la riprova, non definitiva ancora ma certo molto importante. Ieri ad Amsterdam gli Stati hanno chiesto alla Commissione di predisporre il quadro giuridico che permetterà a chi vuole di attuare o prolungare fino a due anni la chiusura delle frontiere nazionali. In sostanza, chi potrà riaprire le dogane e abbassare le sbarre lo farà.

Francia, Germania, Danimarca, Austria, Norvegia e Svezia prolungheranno il loro stato di necessità, altri seguiranno. E noi? Noi - come la Grecia - abbiamo la ventura di costituire la frontiera «esterna» dell’Unione, la porta che si trova di fronte ai profughi, ai migranti, a tutti i disperati che vengono a cercare un futuro. Finora questa porta l’abbiamo presidiata da soli, con pochi soldi comunitari, impiegando mezzi e risorse e salvando migliaia di vite umane sperse per il Mediterraneo.

Nonostante questo, l’Europa ci rimprovera di essere troppo poco efficienti, e la mossa che si è abbozzata ieri al vertice Ue è tutta a nostro svantaggio: alle nostre spalle, con i controlli doganali, si stanno per chiudere le porte più interne, che intrappoleranno gli immigrati qui nei luoghi in cui sono approdati. La cosa si farà prima con la Grecia («non avete fatto i compiti», ripetono i tedeschi) il cui confine con la Macedonia verrà sigillato, poi toccherà a noi.

In sostanza, si creeranno delle stanze di compensazione dell’Unione nel tentativo di preservarne il «cuore» centrale e nordico. Bella solidarietà. Il ritorno delle frontiere nazionali, con una temporaneità che vedremo quanto si prolungherà, è di fatto la fine di Schengen. Sì, non è ancora detto del tutto ma ci si avvicina molto: secondo Angelino Alfano, che ci rappresentava ieri ad Amsterdam, Schengen si può ancora salvare, chissà.

Questa Ue che non resiste agli egoismi nazionali di fronte alle sfide comuni, è la stessa con cui Matteo Renzi ha avviato un duro negoziato sulla flessibilità di bilancio in vista del giudizio di primavera sulla nostra legge di Stabilità 2016. Ai cosiddetti «falchi» del Nord secondo i quali di flessibilità ce ne è stata concessa sin troppa finora, la Commissione ha offerto un prezioso aiuto in forma di studio previsionale delle economie dei partner. Secondo questo studio, l’Italia presenta un «alto rischio nel medio termine a causa del suo elevato debito pubblico», ragione per cui dopo due anni di sciali (ma chi se ne è accorto?) nel 2017 dovremo tornare ad una politica di austerità nei bilanci che rimetta a posto le cose. Cioè fra un anno la miope politica economica imposta fin qui dai tedeschi e dai loro famigli, cui solo Mario Draghi è riuscito a costruire un argine, avrà il compito di soffocare quel tanto o poco di ripresa alla quale stiamo appendendo le nostre speranze, a cominciare dalla ripresa dell’occupazione. Ecco dunque le due facce dell’Europa che abbiamo di fronte. Un regalo ai populismi di ogni colore.

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