Locatelli: «Da pilota ho chiuso
Vorrei insegnare ai giovani talenti»

«La pole al Mugello con Motosprint in tasca, la voce di Vasco dopo Motegi 2000, il risveglio a Bologna, le ultime cattiverie: starò sempre attorno ai motori e a questo odore di benzina, ma ora mi alzo e non guardo più il cielo». Vent’anni in un rombo di motore, odore di benzina, bolidi colorati, polvere, fratture, ospedali e quel ricordo della prima «fidanzata», la Mv Augusta replica Agostini, il regalo di papà.

Un dono a 5 anni come fosse una promessa: questa sarà la tua vita. Dopo una vita «loca», Roberto Locatelli metterà tutto sotto l’albero, anche il casco. Quello col diavoletto non gli serve più, non in pista, perché Loca ha deposto il forcone e dopo 224 Gran premi, un Mondiale, una vita spericolata, domani guarderà il cielo senza pensare a cambiare le gomme. Le sue hanno morso tre generazioni di sogni e asfalto, senza vergognarsi di mischiare stelle e polvere. Era l’America del Loca, il suo, il nostro Motomondiale.

Poi a dicembre Locatelli ha detto stop: scelta, necessità, orgoglio ferito?
«C’è un po’ di tutto. Avrei voluto smettere molto più avanti ma il pilota d’oggi non è più quello di vent’anni fa, io sono rimasto quel professionista ma non sono più veloce come allora».

La velocità spense il motore?
«No, la voglia di non prestarmi alle leggi del business. Sono stupito dalla mia serenità ma questo non è più il mio Motomondiale. Nel 2010 avrei potuto correre con il team di alcuni uomini Gilera, la mia famiglia degli ultimi anni. Ma poi sono stato tradito: il supporter (lo sponsor) mi voleva ma il mio capotecnico di una vita gli ha detto: Locatelli? No, devi puntare su uno che porti soldi, appoggi, business».

Il nuovo Valentino?
«No, un pilota venezuelano, nulla di che. Avrei voluto sentirmi dire: Loca, non sei più competitivo, grazie. Invece mi hanno detto: non hai i soldi per correre. Oggi servono 700 mila euro e io non so fare il manager di me stesso. E allora ho detto basta: che ci faccio qui?».

Cosa ci faceva nell’89, con l’enduro, lo sapeva bene.
«Avevo talento, ma volevo essere un ragazzo normale. Cominciavo a fare i conti con i tempi ma non accettavo di barattare la mia gioventù con un podio e ne ho pagato le conseguenze. Oggi rinuncerei a qualche nottata con gli amici ma non a essere me stesso».

Quanti Mondiali le è costato, essere se stesso?
«Potrei dire 5-6, ma non è vero. Avevo talento, ne ho vinto uno ed è stato difficilissimo».

Papà pilota le regala una Mv Augusta quando era bambino: si è mai sentito «condannato» a correre?
«No, quella moto con le rotelle era il regalo di un velocista (papà Carlo) passato all’enduro per questione di tempo. La domenica si andava tutti insieme alle gare e iniziava la mia domenica: sentivo l’odore di benzina, cercavo le moto più colorate, poi guardavo la moto di mio padre, una Ktm bianca, e dicevo che un giorno sarebbe stata mia. Anni dopo, una sera in Austria, capii di aver realizzato il sogno: io pilota della Ktm, pagato per correre sulla moto di mio padre».

Poi è arrivata l’Aprilia: Gran Premio d’Italia del ’94, per lei c’è una wild card…
«Ero un lettore folle di Motosprint: guardavo le foto dei piloti e sognavo di essere al loro posto. Venivo dall’enduro, al Mugello eravamo arrivati con un furgone, posteggiato male. Prima delle prove, un addetto del circuito mi disse: ragazzo, c’è un furgone da spostare, sbrigati. Io spostai e scaricai il furgone e poco dopo feci la pole-position. La mattina dopo, prestissimo, feci incetta di giornali all’edicola per paura di non trovarli più. Di quel giorno mi resta il giro di pista alla fine, io, la moto, fuori da tutto. Solo il Mondiale e il risveglio a Bologna dopo l’incidente (a Jerez) mi hanno dato la stessa adrenalina. Sarò sempre un uomo Aprilia».

Mondiale è Motegi 2000 e il team di Vasco Rossi: che canzone le girava nella testa, quel giorno?
«Di quel giorno ho un rimpianto, non aver conservato un messaggio di Vasco Rossi, il mio idolo di sempre. Vasco lo lasciò nella mia segreteria. Diceva: vorrei dirtelo di persona, mi hai emozionato come non mi capitava da tempo. È stato il complimento più bello della mia carriera. Ho corso anche per Eros Ramazzotti, ottima persona. Ma Vasco è unico: disse che lo feci godere più della Schiffer. Pazzesco».

Nemici e amici: da che parte pende la bilancia?
«Amici quasi tutti, specie tra i piloti: sono sempre stato sincero».

Valentino o Biaggi?
«Valentino è il Vasco della moto, è unico. Ma oltre al talento, aveva la capacità di prendere il meglio degli altri, di rubarne i segreti. Lui veniva per fare due chiacchiere ma in realtà ti studiava, ti passava ai raggi x, ti analizzava. Biaggi è un riccio, diffidente, scontroso: non è amato nel circuito ma è uno generoso. Il più antipatico era Gibernau, non sopportavo il suo teatrino a gara finita, il compagno ideale Simoncelli: pochi sono onesti come lui».

Valentino è il re di sempre?
«Nell’era in cui ho corso io sì. I miei miti sono Freddy Spencer, Lucchinelli, Mamola».

Lucchinelli e Mamola: amava i folli, più che i vincenti.
«Ho amato tantissimo Pantani. Nel 2004 ho corso con la sua immagine sul casco, lui era l’emozione fuori pista».

In pista, Locatelli che posto occupa nella classifica degli ultimi vent’anni?
«Nei primi venti, se devo essere umile».

Sia sincero.
«Allora mi metto nei primi dieci. Mi hanno penalizzato le cadute, ma 16 anni di Motomondiale e il quarto posto nel 2006 valgono quanto il titolo del 2000. Non capisco chi smette e sparisce, come Cadalora: dov’è la passione?».

È anche colpa della Moto2, la nuova creatura del Motomondiale, se lei ha detto basta?
«No, ogni novità si porta appresso polemiche e scontenti, avvenne anche con la MotoGp. Però c’è un livellamento verso il basso: vent’anni fa c’erano tre campioni per ogni categoria, oggi ci sono tre campioni in tutto. Forse».

Jerez 2007: fratture multiple, coma farmacologico a Bologna. Le pesò più l’infortunio o lo scetticismo sul suo rientro?
«L’infortunio me lo sono portato addosso per due anni, ma la ferita più grande è Valencia 2009, l’ultima gara. Ho corso con un chiodo nella mano (destra, per la frattura allo scafoide), fiero della mia professionalità. Poi è arrivato il capotecnico della Gilera e ho capito che 20 anni erano finiti, c’era altro da fare».

Una carriera in Superbike, come va di moda?
«No, da pilota ho chiuso. Il mio futuro è insegnare ai talenti di oggi a diventare piloti. Non a guidare la moto, quello lo sanno già fare, ma a fondersi con la moto, a essere pilota nella testa, non solo in moto. Si chiama coordinatore sportivo, mi piace l’idea di lasciare qualcosa di mio».

Che cosa penserà, alzandosi a Natale?
«Non sono più schiavo del cielo. Quando correvo era un’ossessione: la sera scrutavo le nubi per timore della pioggia, sul bagnato andavo in tilt. Ora so che posso alzarmi e con qualunque cielo è sempre sereno».
 Simone Pesce

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