Gimondi mondiale 40 anni fa
Anche il cannibale venne battuto

«Giustizia è fatta». Questo giudizio, universalmente espresso dal mondo del ciclismo, aveva fatto da comune denominatore alla conquista della maglia iridata da parte sia di Fausto Coppi (30 agosto 1953) sia di Felice Gimondi (2 settembre 1973).

«Giustizia è fatta». Questo giudizio, universalmente espresso dal mondo del ciclismo, aveva fatto da comune denominatore alla conquista della maglia iridata da parte sia di Fausto Coppi (30 agosto 1953) sia di Felice Gimondi (2 settembre 1973).

Nel giro di pochi giorni sono caduti due anniversari «pieni»: i 60 anni del titolo mondiale del Campionissimo, il più grande campione della storia della bicicletta, e i 40 di quello del nostro amatissimo Felice, orgoglio e vanto del popolo bergamasco. Per entrambi la conquista del massimo alloro era stata giudicata il giusto suggello a una carriera che li aveva già visti trionfatori dappertutto: Tour, Giro d'Italia, grandi classiche internazionali in linea e a cronometro, campionati italiani.

Tra le tante maglie mancava soltanto quella iridata, da qui quel «giustizia è fatta» di cui s'è detto all'inizio. Due trionfi, quelli di Fausto e Felice, che presentano diversi punti in comune, non esclusi curiosamente i nomi di battesimo evocanti lieti presagi. Uno l'abbiamo detto: il concetto di coronamento, magari un po' tardivo, di carriere straordinarie.

Un altro: entrambi hanno compiuto le loro imprese pedalando su biciclette Bianchi, marchio che da oltre un secolo è l'indiscusso numero uno al mondo. Un terzo è di natura tecnica e tattica insieme: al momento di formare la squadra azzurra sia Fausto sia Felice avevano alzato la voce, imponendo agli allora commissari tecnici i propri uomini di fiducia e, soprattutto, l'esclusione di possibili serpi in seno.

Coppi aveva picchiato il pugno sul tavolo perché venisse lasciato a casa Bartali, e il citì Binda lo aveva accontentato; Gimondi aveva preteso l'esclusione di Gianni Motta, e anche in questo caso l'auriga azzurro, che era Nino Defilippis, aveva detto di sì. In tal modo i due grandi campioni si erano sentiti sicuramente più liberi ma, contestualmente, si erano caricati sulle spalle una bella responsabilità.

Sulla strada i due trionfi erano maturati in modo molto differente. Coppi, che quel 30 agosto 1953 a Lugano era prossimo a compiere 34 anni (era nato a Castellania, in provincia di Alessandria, il 15 settembre 1919) aveva vinto alla sua maniera, per eliminazione, demolendo la corsa. In fuga con altri corridori sin dal mattino, se li era tolti di ruota tutti, uno dopo l'altro, aprendo il gas ad ogni passaggio sulle salita della Crespera, l'asperità inserita nel circuito ticinese. L'ultimo a mollarne il mozzo era stato il belga Derijke, giunto secondo con un distacco superiore ai sei minuti.

Anche quella del 2 settembre 1973 a Barcellona era stata una gara ad eliminazione, soprattutto per il lavoro dello squadrone belga. Alla fine erano rimasti in quattro, schiumati dai ripetuti passaggi sulla collina del Montjuic: il cannibale Merckx, il suo giovane scudiero Maertens, lo spagnolo Ocana e naturalmente Gimondi, ostinatamente incollato al palmer di Merckx.

La volata a quattro, sulla carta, sembrava una pagina già scritta: Merckx era di gran lunga il più veloce e, inoltre, poteva contare sull'appoggio del talentuoso connazionale. Ma il cannibale, quel giorno, aveva preteso un po' troppo dal suo inesauribile motore ed era arrivato alla fine con le pile un po' scariche. Accadde così l'impensabile. Ai 250 metri Gimondi, che ne aveva ovviamente battezzato la ruota, aveva intuito che le gambe dell'eterno rivale non erano quelle di sempre ed era uscito a palla dalla sua scia: o la va o la spacca. Andò, e in Italia fu il delirio. Altri tempi, altri campioni, altri uomini. E anche altro ciclismo.

Ildo Serantoni

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