Il ritorno di Daniela Masseroni: «Il sogno è realtà»

L’abbraccio è un tricolore con dedica («il sogno è diventato realtà»), lei è tornata da pochi minuti e si è infilata a casa della zia Lory, perché mamma Alma, papà Mario e la sorella Laura sono ancora là, ad Atene, questione di orari del volo e di uno scherzo «olimpico»: loro in Grecia, lei qui, 24 ore dopo l’arrivo a Malpensa, dieci giorni dopo la partenza per una pedana, due giorni e dieci minuti che valgono quindici anni di sudore, rinunce, sveglie all’alba, sonno e sogni.

A vederla così, maglietta bianca della nazionale, capelli sciolti, sorriso timido, Daniela Masseroni sembra una normale ragazza della sua età, 19 anni compiuti a febbraio, una maturità da campionessa (100, il vecchio 60), il futuro in una pagina tutta da scrivere. A guardarla meglio, un disco d’argento al collo che abbaglia, e quella scritta «Atene 2004», Daniela Masseroni è una vice-campionessa olimpica appena restituita alla realtà, dopo aver coronato l’inconfessabile desiderio della vigilia: salire sul podio, ma non sul gradino più basso, beffando le avversarie di sempre, le scorbutiche bielorusse, e le amiche bulgare.

Ora, con il senno di poi, Daniela lo può dire, finalmente. «Dopo il secondo posto in Coppa del Mondo, prima delle Olimpiadi, la speranza dell’argento c’era, anche se per scaramanzia continuavamo a ripetere che il bronzo sarebbe andato benissimo». Già: davanti, sulla carta, c’erano Russia, Bulgaria, Bielorussia. «Russia senz’altro, con Bulgaria e Bielorussia sapevamo di giocarcela alla pari.

Le più temute? Le bielorusse, per giunta antipatiche: che bello mettersele alle spalle». Ora, con il senno di poi, forse un pizzico di rammarico c’è, perché le russe «sono sopra tutte, il peso politico fa il resto, però il gap ad Atene, nove decimi, è nulla rispetto ai tre punti di prima». Ora, uscita dalla trance agonistica, Daniela rivede Atene come in flash-back: città tappezzata di manifesti a cinque cerchi, il villaggio olimpico («lo spettacolo dell’Olimpiade, una città vera, ci ho lasciato il cuore»), il tabellone luminoso che indica Italia, secondo posto, medaglia d’argento.

«Allenamenti al mattino e al pomeriggio, l’attesa della gara, le prove. Eravamo in una specie di trance, non ci rendevamo conto di nulla. Abbiamo visto la finale del torneo maschile di pallavolo, gli azzurri con la medaglia d’argento e abbiamo detto: argento, che bravi. Come se noi non avessimo fatto niente!». Invece no. «Pedana, cerchio, palla, nastri, coreografia, compagnie ed avversarie, perfino la giuria: è tutto come sempre, ma il clima che respiri, quello è diverso, ed è solo all’Olimpiade. Il primo giorno ho guardato il tabellone, il secondo no, non avevo il coraggio. Prima di cominciare ci siamo guardate negli occhi: è stato un attimo, lunghissimo, è bastato. Poi è stata attesa e sofferenza».

Gara di tecnica («russe di un altro pianeta»), e di espressione artistica («il nostro pezzo forte, siamo le migliori»), gara di tifo-torcida («bellissimo, ma un rumore di fondo, perché quando sei lì siamo noi, la musica, la gara, tutto il resto non esiste»), gara di tabellone, argento, il pianto della mamma («come una fontana, mio padre invece aveva un sorriso clamoroso»), l’abbraccio della sua allenatrice di sempre, Daniela Gamba Spagnolo, il podio.

«Alcune di noi hanno versato qualche lacrima, a me veniva da ridere a crepapelle. Ma ho cercato di darmi un contegno e mi sono limitata a un sorriso»). E ora? Una capatina sul colle del Quirinale («dal Presidente Ciampi, mica male»), un titolo onorifico («Cavaliere della Repubblica, vero?»), una vacanza con la squadra «a Parigi, programmata da tempo, a prescindere dal risultato: ora un premio meritato, non crede?», un sospiro e un pensiero. Entrambi a Pechino 2008. «Non lo so, di solito le ginnaste partecipano a una sola Olimpiade e poi staccano la spina. Però…». Però dopo l’argento, resta un gradino, piccolo, grande, enorme. Unico.

(01/08/2004)

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