«Ciao don Fausto, simbolo di speranza»
Si è spenta una luce, lo piangono tutti

E così si è spenta un’altra luce che incarnava la speranza. Ci ha abbandonato un uomo, un sacerdote, che ridava un senso alla vita di chi l’aveva fino allora sperperata, di chi si era perso nei meandri più bui della propria esistenza, di chi era stato inghiottito da un mondo arido ed egoista.

Don Fausto, non c’è bisogno del cognome, per chi credeva in lui, nel suo saper amare, era la scintilla della rinascita, l’alba del riscatto. «Se ne è andato nel silenzio e nella solitudine della notte, proprio come molti uomini vissuti in strada di cui lui si è preso cura nel suo ministero», è stato il commovente post della Comunità don Milani di Sorisole.

La notte fra domenica e lunedì, il suo cuore ha ceduto in una asettica camera di terapia intensiva dell’ospedale Sant’Anna di Como. Lo sappiamo, avrebbe preferito spegnersi nel gelo di una notte alla stazione in mezzo ai ragazzi, agli sbandati, ai tossicodipendenti. Don Fausto non si è mai risparmiato. La fatica l’aveva imparata fra i cascinali di Lurano, dove vivono i Resmini, dove vivevano i genitori. Una geometria di terreni, accostati l’un l’altro, primi tasselli del puzzle della sua vita destinata a non conoscere confini geografici, ad espandersi dalla semplicità di una famiglia della Bassa per abbracciare l’arcipelago della tristezza e degli ultimi. Don Fausto non amava le definizioni, compresa quella di «prete di strada». Ma è stato un pilastro portante della carità a Bergamo, ha messo in pratica gli insegnamenti di don Bepo Vavassori e di don Lorenzo Milani. Il prossimo 7 aprile avrebbe compiuto 68 anni. I suoi primi anni li aveva trascorsi a San Paolo d’Argon, al collegio del Patronato San Vincenzo. Dopo gli studi di teologia, era stato ordinato sacerdote il 17 giugno 1978. Ma nel frattempo aveva già respirato quell’ambiente che lo avrebbe assorbito per tutta la vita. Assistente al patronato a Sorisole, poi vice direttore.

Si era fatto in quattro per aiutare un sacerdote che aveva aperto un primo dormitorio a Valtesse. Si era anche iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, ma gli impegni lo avevano costretto ad abbandonare gli studi. Ma anche in quella scelta c’era la sua ricerca di giustizia che chiedeva per ogni persona, anche la più dannata.

Il 1978 – un periodo storico turbolento, gli anni di piombo, gli anni delle contestazioni studentesche – ha segnato l’incipit del suo ministero sacerdotale e nello stesso tempo il primo mattone della costruzione di una rete di progetti a favore dei diseredati. Dopo un decennio (1978-1988) come vice direttore del Patronato di Sorisole, nel 1988 ne ha preso in mano le redini e proprio in quell’anno la comunità in accordo con il ministero di Grazia e Giustizia spalancò le porte ai «ragazzi del penale», ai minori che si erano macchiati di reati gravi anche contro la persona. Dal 1990 in poi, è stato tutto un fiorire di nuovi progetti: il Servizio Esodo, l’Associazione in strada, la Cooperativa il Mosaico, l’ascolto, la scuola, la fattoria didattica. Nonostante la quotidianità nella comunità di via Madonna dei Campi assorbisse tutto il suo tempo e le sue forze, don Fausto obbedì sempre alle richieste dei vescovi che lo volevano ora membro del Consiglio Presbiterale Diocesano (1997-2011), ora presidente dell’Associazione Psicologia Psicoterapia Il Conventino e di Conventino Adozioni (dal 2009) e infine direttore della Casa del Giovane (dal 2018). Ma per tanti don Fausto rimarrà il sacerdote che quando varcava i cancelli del carcere portava dietro di se la scia della speranza.

Dal 1992 era cappellano delle carceri e dal 2012 delegato regionale per la pastorale carceraria. Cariche, nomine, che di fatto non lo hanno mai fatto apparire su un piedestallo e delle quali probabilmente avrebbe fatto anche a meno. Non conosceva le luci della ribalta e ogni qual volta un sodalizio, un’associazione premiava il suo impegno con riconoscimenti o fondi per la Comunità, se ne spogliava immediatamente appena raggiungeva la sua Sorisole. Lo addolorava una domanda ricorrente che gli ponevano a incontri e conferenze: «Ci chiedono quante persone salviamo, mai quante ne incontriamo».

Aveva fatto tesoro di una frase che gli aveva detto il card. Loris Capovilla, amico e confidente. «Ormai vicino alla morte – gli disse il porporato – Papa Giovanni mi chiese di togliere alcune monete che erano nel comodino della sua stanza, perché quando Cristo l’avrebbe chiamato avrebbe dovuto trovarlo senza nulla, senza denari». Don Fausto era così, non voleva beni materiali, ma ricchezza di amore, di spirito. Il suo studio era lo specchio della semplicità, mobili vintage, poltrone anni Sessanta, qualche quadretto e una scrivania della quale non si scorgeva il ripiano tanto era colma di carte, documenti, giornali. Valentino Salvoldi, da poco tornato dal Burundi, aggiunge un nuovo episodio. «Il card. Capovilla, mentre un giorno parlavo dei miei progetti in Africa, mi esortò ad aiutare don Fausto e la sua Comunità. “Don Fausto” è un santo, mi disse allora».

Per oltre 30 anni il carcere è stata la sua casa («il mio ergastolo», sorrideva). Dopo la messa del mattino, celebrata in comunità, correva in via Gleno dove si era guadagnato la fiducia oltre che dei magistrati di sorveglianza, anche degli irriducibili, ai quali spesso portava non solo una parola di conforto, ma anche un testo religioso, una Bibbia. Poi gli impegni alla casa del Giovane, al Conventino e al tramonto, la stazione, come ultima tappa di una quotidiana Via Crucis consumata fra la disperazione di un detenuto, il dolore di malato all’addiaccio e infine le lacrime di un senzatetto. Per anni, un camper della comunità ha fornito i pasti alla stazione. In tanti la sera hanno trovato un rifugio, un tetto a Sorisole. Ma tanti anche coloro che nonostante il gelo delle notti invernali chiedevano di rimanere avvolti in una coperta.

Alcune volte, la notte, uscito dal quotidiano, don Fausto mi chiedeva di raggiungerlo in stazione. «Dai, tieni accesa l’auto e falli salire un po’ al caldo». Così da inesperto cronista ascoltavo le storie di quei giovani che loro stessi spronavano a raccontare su «L’Eco». Non c’era alcuna vergogna o ritrosia. E con il passare dei mesi, conoscevi che ogni stagione portava nuovi disperati, prima gli eroinomani, poi gli imprenditori falliti, poi gli extracomunitari e i mezzo a loro pusher, delinquenti abituali. Il cerchio della vita di don Fausto si è ormai chiuso. Sarà difficile conservarne l’eredità.

Ci sono aspetti della sua esistenza che pochi ancora conoscono. Una persona ricorda che la sua stanza era sopra la chiesa della comunità e dalla finestra lui riusciva a scorgere il crocifisso per l’ultima preghiera quotidiana. Il 5 marzo ha lasciato per l’ultima volta la comunità. Don Dario Acquaroli aveva chiamato l’ambulanza per il ricovero alle Gavazzeni. «Don Fausto, ti lascio le chiavi della comunità?» gli aveva detto. Pronta la risposta di don Fausto: «Tienile tu». E quelle parole piene di mestizia sono state l’addio ai suoi collaboratori, a Elena, Luigi, Salvatore, Fabio… e gli altri, assieme ai ragazzi di Sorisole, che da lunedì si sentono ancora più orfani e soli.

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