«Lo sport mi ha insegnato a resistere
Ora indosso la maglia della Nazionale»

I campioni sono quelli che lottano fino alla fine: l’abilità tecnica non basta, servono testa e cuore, e Paolo ha tutte le carte in regola, nello sport e nella vita, così com’è, con una gamba sola.

Gioca nella nazionale di sitting volley, una disciplina paralimpica ancora poco conosciuta in Italia, in cui gli atleti si passano la palla restando seduti sul pavimento, in un campo più piccolo di quello regolamentare, con una rete più bassa. Il destino, come il ballo, è imprevedibile: i passi tracciano traiettorie variabili sulla pista, non si sa mai dove andranno a finire. Bisogna essere pronti alle svolte improvvise, agli arresti, alle nuove partenze, senza perdere il ritmo e la direzione. Paolo Gamba, 49 anni, di Brembate, titolare di un’impresa di impermeabilizzazione, coperture e tetti, un uomo pieno di energia e di passioni, maestro di balli caraibici, lo insegnava ai suoi allievi anni fa, insieme ai primi passi di salsa e merengue. Non immaginava che quelle lezioni gli sarebbero state così utili nella sua «seconda vita».

In un pomeriggio di luglio come tanti, nel 2005, è cambiato tutto. Una manovra brusca, il muletto che si ribalta, Paolo rimane sotto: «Mi ha schiacciato la gamba sinistra - racconta -. Avevo i tessuti lacerati, un frattura della tibia esposta. Lesioni gravissime. Mi hanno portato all’ospedale più vicino, a Ponte San Pietro e lì hanno tentato di salvare la gamba». Quel giorno Paolo doveva partecipare a un torneo di beach volley. A casa lo aspettava la fidanzata Raffaella, che aveva conosciuto sulla pista da ballo: «Dovevamo sposarci a settembre, avevamo già fissato il ristorante, le bomboniere, tutto. Ci è crollato il mondo addosso».

Paolo si è ritrovato su una sedia a rotelle, con la gamba ingabbiata in una struttura di metallo: «Ho passato un anno infernale. Qualsiasi cura i medici tentassero non portava risultati. A giugno 2006 ho infine deciso per l’amputazione, che è stata eseguita all’ospedale di Bergamo. La decisione è maturata un anno dopo l’incidente, prima non avrei potuto accettarla. A quel punto avevo invece capito che era l’unico modo per tornare a una vita normale».

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