Il Nobel Beutler a BergamoScienza
«Batteremo le malattie autoimmuni»

Bruce Beutler, premio Nobel per la medicina 2011 per le sue ricerche sui Tlr (toll like receptors), proteine simili negli animali e nell'uomo che attivano il sistema immunitario, sarà a BergamoScienza sabato 13 ottobre.

Bruce Beutler, premio Nobel per la medicina 2011 per le sue ricerche sui Tlr (toll like receptors), proteine simili negli animali e nell'uomo che attivano il sistema immunitario, sarà a BergamoScienza sabato 13 ottobre.

Professor Beutler, non solo lei ha deciso di fare il biologo a 7 anni, ha cominciato a lavorare in laboratorio a 14 anni, si è laureato con due anni di anticipo e ha vinto il Nobel, ma suo padre Ernest era un eminente ematologo. È un «figlio d'arte» riuscito. Nessun problema di competitività in famiglia?
«Avere un padre scienziato è stata per me un'opportunità, non un motivo di competizione o di angoscia. È stato un rapporto bellissimo e mi spiace molto di non aver potuto condividere la gioia del Nobel, poiché è morto nel 2008. Entrambi amavamo la musica e la ascoltavamo insieme: io dicevo che eravamo come Leopold e Wolfgang Mozart e mio padre ribatteva che eravamo come i Bach. Seriamente, abbiamo parlato quasi tutti i giorni, per 25 anni, della vita e della scienza. Negli ultimi anni abbiamo anche pubblicato insieme perché abbiamo scoperto, in un gene dei topi, mutazioni che avevano anche importanti conseguenze sul metabolismo del ferro, che era il campo di studio di mio padre».

Lei deve il Nobel alle scoperte sui Tlr, i toll like receptors. Come funzionano?
«Sono come piccoli sensori chimici delle cellule, antenne che decodificano i segnali e dicono al sistema immunitario se ci sono in giro agenti patogeni che devono essere eliminati. Sono in grado di individuare determinate molecole che strutturano i batteri, come i polisaccaridi che sono costitutivi di tutti i batteri gram. I Tlr lanciano l'allarme e il sistema immunitario interviene, provocando una grande infiammazione temporanea che contiene quasi sempre l'attacco dei batteri. La risposta infiammatoria avviene perché centinaia di migliaia di geni nelle cellule si attivano grazie ai Tlr».

Quali prospettive si aprono per i farmaci intelligenti?
«L'idea è che sia possibile rinforzare l'organismo in modo che resista meglio agli attacchi di malattie infettive velocizzando il processo di allarme del sistema immunitario. Adesso sappiamo anche che certe infezioni severe, come le encefaliti, si sviluppano anche perché c'è un difetto di espressione del gene o di funzionamento del segnale del Tlr e quindi, se si corregge la struttura genica, il sistema immunitario intercetterà in tempo il batterio. Ma penso che i risultati delle nostre ricerche potranno essere applicati soprattutto alle malattie autoimmuni. Ora sappiamo che in una delle più comuni, il lupus erythematosus, il malfunzionamento dei Tlr ha un ruolo molto significativo. Modificando i Tlr si può prevenire la malattia nei topi, e ci sono ragioni di credere che farmaci che blocchino il sistema di segnalazione dei Tlr abbiano un ruolo decisivo nella malattia, e un impatto molto più specifico e modulato dei trattamenti in uso ora».

Quanto tempo ci vorrà?
«Penso che in due o tre anni concluderemo gli studi per le applicazioni umane. A volte la ricerca di base può essere velocemente trasferita all'applicazione clinica, ma quello che prende tempo sono i controlli sulla sicurezza dei farmaci. Ma un po' di strada è stata fatta e penso che non ci voglia ancora molto. Un esito interessante è che ci sono farmaci dei quali non conoscevamo il funzionamento, adesso sappiamo che sono efficaci perché attivano i Tlr».

Bisogna essere giovani per fare scienza?
«Fisici e matematici danno il meglio da giovani. In biologia conta anche l'esperienza e perciò è possibile continuare a lavorare bene molto più a lungo. Ma l'elemento chiave nella longevità scientifica è mantenere la mente aperta e flessibile, evitare di diventare dogmatici. L'età può darti quel pizzico di scetticismo che è importante per evitare cantonate».

Per fare scienza contano più la curiosità o la disciplina?
«Il mistero è intorno a noi, soprattutto in campo medico. Noi non sappiamo come funzionano molte malattie: come medico, avendo visto molti pazienti nella mia carriera, so quali sono i problemi di base, ma come ricercatore devo chiarire i dettagli. Poi, gli scienziati migliori sfidano se stessi per trovare l'errore nelle proprie ipotesi, mentre gli scienziati deboli credono alle proprie ipotesi. È forse la parte più dura del mestiere di scienziato, avere il coraggio di sfidare le proprie idee. Mentire a se stessi è una tentazione per tutti, ma per gli scienziati è una questione di sopravvivenza professionale e devi essere duro e estremo con te stesso in questo».

Come ha usato il Premio Nobel?
«Ho dato parte del denaro ai collaboratori che hanno contribuito alla scoperta centrale, perché penso che sia loro quanto mia. Ma il Nobel dà molto di più del denaro, perché è l'affermazione pubblica che si è dato un grande contributo alla scienza e si diventa un po' i più credibili nel proprio campo: così ho usato questo aspetto del premio per pianificare al meglio le mie ricerche, assicurarmi i migliori specialisti in circolazione per il mio laboratorio, trovare fondi per poter correre rischi altrimenti impossibili».

E ora su che cosa sta lavorando?
«Stiamo lavorando con metodiche genetiche sul cancro, per trovare se esistono mutazioni che lo sopprimono e di qui arrivare a farmaci che lo blocchino».

Una ricerca promettente?
«Presto per dirlo, ma prendere tempo è uno dei rischi che il premio Nobel mi permette di correre».

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