Sanremo entra in cucina
Sottocornola: «Note di sapori»

Arriva il Festival di Sanremo e, anche in tempi di crisi, il Belpaese sarà nuovamente inondato da canzonette più o meno “usa e getta”, alcune delle quali rimarranno tuttavia nel nostro immaginario collettivo.

Arriva il Festival di Sanremo e, anche in tempi di crisi, il Belpaese sarà nuovamente inondato da canzonette più o meno “usa e getta”, alcune delle quali rimarranno tuttavia nel nostro immaginario collettivo. Del resto, per tutti l'Italia vuol dire moda raffinata, buona cucina e buona musica.

Prendendolo come divertissement, abbiamo provato ad approfondire il particolare accostamento fra cibo e musica, rintracciando nel vasto repertorio nazionale tutti i possibili riferimenti gastronomici.

Lo abbiamo fatto con l'aiuto del professor Claudio Sottocornola, 54 anni, bergamasco, residente a Bergamo, laureato in Filosofia alla “Cattolica”, docente ordinario di filosofia e storia al liceo scientifico Mascheroni di Bergamo e insegnante di Storia della canzone e dello spettacolo alla Terza Università di Bergamo. Giornalista pubblicista iscritto all'Albo dal 1992, il professor Sottocornola, particolarmente interessato ai fenomeni della cultura "popular" (canzone, spettacolo, cinema, televisione), ha recentemente pubblicato “Working Class”, un cofanetto in cinque dvd che analizza il rapporto fra società e canzone in Italia. Vi sono raccolti ben otto anni di lezioni-concerto tenute sul territorio.

Sottocornola, definito il “filosofo del pop”, utilizza infatti la canzone come strumento di ricostruzione storica e del costume, realizzando innovative ricerche a carattere multimediale fra musica, poesia e immagine. Il cofanetto (20 euro) si può richiedere a [email protected]

Professore, da dove iniziare questo percorso fra musica e cibo?
Abbiamo solo l'imbarazzo della scelta. Perché non partire da “Spaghetti a Detroit” di Fred Bongusto, con quelle atmosfere fumettistiche e da night tanto anni '60? Per restare in tema, si può poi gradire “Pollo e Champagne” con le gemelle Kessler, alte, bionde, tedesche, in grado di ipnotizzare il pubblico televisivo dell'intero decennio, chiudendo con “Una fetta di limone” di Gaber e Jannacci. Ma si può anche optare per “Un gelato al limon” del raffinato Paolo Conte, o uscire dal circuito magico dei nostalgici per una più prosaica e commerciale “Gelato al cioccolato”, anche se è più gourmet indugiare fra “Banane e lampone” dell'inossidabile Morandi.

Gli anni '60, in effetti, sono stati una fucina di evergreen musicali… Chi è stato più prolifico nel parlare di cibo attraverso la canzone?
Un indubbio primato va a Rita Pavone, non solo per la celeberrima “Viva la pappa col pomodoro”, recentemente rinverdita dalle repliche del “Gianburrasca” televisivo della Wertmuller su Rai 5, ma anche per la meno nota e tuttavia struggente “Stasera sogno”(una malinconica metafora della vita: al desiderio di pasti luculliani subentra ben presto l'accettazione di una misera minestrina tutta fatta di “capellin”), tratta dal medesimo sceneggiato. Ma la Pavone non demorde e, nel suo repertorio per l'infanzia , incide “Mamma dammi la panna” e “Col chicco (d'uva passa)”. Nel '69 al Festival di Sanremo, in coppia con i Dik Dik, propone “Zucchero” (“Il tuo amor non è zucchero, ma mi piace ugualmente perché…”) mentre nel '77 torna in hit parade con la sigla televisiva “My name is potato” (“Tu sei la patata, oggi rinomata, l'accento un po' straniero dell' American Impero…”).

Altre cantanti che hanno interpretato il cibo?
C'è una Fiorella Mannoia in versione rock che propone un pezzo allusivo dalle atmosfere soul, “Caffè nero bollente”, al Festival di Sanremo dell'81, mentre l'intramontabile Mina si cimenta con Celentano in “Acqua e sale”, in realtà cifra di un rapporto amoroso agrodolce e metropolitano, per non parlare di “Ma che bontà” dall'album “Mina con bignè”, ironica degustazione di seduttive vettovaglie gastronomiche. Che dire poi di una Marisa Laurito che, strizzando l'occhio a tutte le extralarge, si cimenta in un pezzo come “Il babà è una cosa seria”, sorniona decantazione di una napoletanità che è filosofia di vita e… di alimentazione. Fra le attrici che si sono cimentate con la canzone gastronomica, anche se in chiave allegorica, da enciclopedia dello spettacolo, vi è poi la sorprendente e ironica performance di Monica Vitti ne “I crauti”.

La canzone non può certo aver dimenticato il mito tutto italiano del caffè. E' così?
Due capolavori, “Na tazzulella ‘e cafè” di Pino Daniele e la metafisica “Don Raffaè” di Fabrizio de André, che narra di un boss malavitoso in carcere, cui un secondino asservito offre quotidianamente il caffè, con tutto il carico di allusione e denuncia che tale rito comporta. Ma anche la spensierata, estiva e solare “Che cosa hai messo nel caffè” (“… che ho bevuto su da te… c'è qualche cosa di diverso adesso in me”) di un Riccardo del Turco in gran forma, in quella “lunga estate degli anni Sessanta”. E per concludere, non dimentichiamo “Il caffè della Peppina” da uno Zecchino d'Oro di anni fa, indelebile memoria fra Mago Zurlì e una fatina come Daniele Ventre.

E fra gli accostamenti più curiosi?
Indubbiamente il fantasmagorico e inesistente “Cacao Meravigliao” di Renzo Arbore che strizza l'occhio al Brasile, il “Peppermint twist” di Adriano Celentano, la Coca Cola di Vasco Rossi con le sue “Bollicine” e il “Lambrusco e popcorn” di Ligabue, “Cigarettes and coffee” di Scialpi ma, soprattutto, l'inusitata “Rossetto e cioccolato” di una raffinata Ornella Vanoni. Discorso a parte meriterebbe “La nutella di tua sorella” di Renato Zero e Ivan Graziani o “Con le mani” (“… sbucci le cipolle…”) di Zucchero.

C'è qualche canzone dove il cibo è semplicemente occasione di satira sociale?
Una per tutte: “La terra dei cachi” che Elio e le Storie Tese hanno presentato al festival di Sanremo del 1996 suscitando dibattito e polemiche, e senz'altro parodiando l'Italia contemporanea con le sue contraddizioni e la sua banalità nel male…

Professor Sottocornola, per finire, le sue canzoni preferite nel rapporto col cibo?
Il capolavoro assoluto credo sia “Barbera e Champagne” di Giorgio Gaber, che approfitta del buon vino per parlare del carattere del tutto contingente delle differenze sociali, nel nome di un possibile affratellamento al di là degli steccati di classe. Certamente più “ruffiana”, ma sapiente nel suo armamentario kitsch è “Champagne” di Peppino di Capri, che riversa nel pezzo le consuete (ma universali) pene d'amore. A queste mi sentirei di accostare solo la superba citazione di Vasco Rossi in “Vita spericolata”: “E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar…”, quasi il sogno di una condizione metafisica, al di là delle barriere di spazio e tempo… Perché il buon cibo, come il buon vino, sono da sempre la metafora di una umanità riscattata dal dolore e dalla morte e, come la musica, condizione ineludibile della festa e della gioia che ne nasce.

Roberto Vitali

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