La pioggia non ferma
la musica dei Jethro Tull

Il «flauto magico» di Ian Anderson alla fine riesce anche a placare il maltempo, dopo aver dato il via alle danze sotto la pioggia. Il concerto inizia con un’ora e mezzo di ritardo, perché la tempesta che s’è abbattuta sul Lazzaretto nel tardo pomeriggio ha inevitabilmente creato problemi all’impianto.

Il Summer Sound Festival inizia così, con una lunga attesa, qualche momento di tensione e un brivido di progressive rock che arriva direttamente dagli anni Sessanta e Settanta e, dopo quarant’anni, rivendica ancora una sua validità, persino una sua freschezza.

Dopo Radiohaed, Dream Teather, Elton John, Devo, Bob Dylan sotto il diluvio, un altro pezzo di storia della musica popolare: Jethro Tull. Verrebbe da dire: la leggenda continua. E in effetti è così. Dai vecchi leoni arrivano ancora i brividi più intensi. Che siano indirizzati al pubblico dei giovani o ai fan di un’epoca lontana poco importa, in fondo il rock rimescola le carte generazionali. E proprio i Jethro sanno come mettere in fila padri e figli, testimoni diretti di un tempo in fermento e ragazzi curiosi di un suono avvolto dal mito.

Il flauto incanta ancora il serpente del prog e Anderson resterà per sempre il pifferaio di una stagione importante. Il concerto attacca da Nothing Is Easy ed è strabiliante avvertire quanto il suono dei Jethro Tull sia rimasto felicemente sospeso tra rock e altro, tra blues e musica classica, il folk fiabesco di un’Inghilterra d’antan.

Ancora una volta, dal vivo s’impone la capacità del leader di organizzare una miscela musicale che lega elementi di hard-blues e progressive rock ai richiami ancestrali di una musica che affonda le radici nella tradizione britannica.

Il concerto riscalda il cuore ai 2.500 fan arrivati al Lazzaretto nonostante tutto. Nessuno si ripara sotto il porticato, tutti si assiepano a ridosso del palco sfidando la pioggia che piano piano si congeda. Nonostante tutto l’aria è festosa, annacquata, senza tempo.

Il suono della band è ancora quello, nonostante in squadra si siano alternati tanti musicisti. Del vecchio giro restano in primo piano Anderson e Martin Barre alle chitarre, insieme dal 1969, Doane Perry picchia sugli stessi tamburi da venticinque anni, gli altri sono John O’Hara alle tastiere e David Goodier al basso.

Chi è cresciuto con questa musica, chi è rimasto folgorato a tempo debito da Living in The Past, Aqualong, Thick As A Brick ancora sente un brivido quando la band morde il freno della storia, gli altri sono almeno incuriositi, perché quel mix di tante suggestioni ancora serba il suo fascino. C’è chi saltella a tempo, perché il gioco favorito della musica riporta alla celebrazione di una stagione che profuma di fiori e di pace, altri restano semplicemente in ascolto, al rumore dei ricordi.

Inutile dire che la scaletta subisce un taglio consistente. All’inizio privilegia Stand Up, album che compie quarant’anni. Lo dice Ian ricordando quel lontano 1969. Come i Rolling non possono dimenticate durante il concerto almeno di accennare a Satisfaction, i Jethro non possono esimersi da sciorinare Bourée, l’ambizione classicheggiante e bachiana di Ian Anderson, e Locomotive Breath, brano scelto per il bis.

Così la musica insegue il sogno di Stand Up tra folk inglese e note blu, chitarre gentilissime e graffi hard. Non chiedete a Ian Anderson e ai Jethro Tull di essere diversi da quello che sono, di suonare altro da quel che hanno in cuore. Tutte le leggende hanno un loro codice di fedeltà. Che importa dunque se la solfa è sempre quella, se Ian e soci ripetono all’infinito il racconto di una musica arrivata alla sublimazione.

Conta che quel «flauto rock» sia ancora disposto a illuminare un frammento di storia, un segno ancora distinto nella confusione dei tempi. Oggi i veterani di quel suono s’inebriano al ricordo di lunghi capelli e chissà quali avventure, mentre i più giovani restano ammirati da quei «giovanotti» che sanno ancora divertirsi sul palco, anche sfidando l’inclemenza del tempo.

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