A Venezia «Il villaggio di cartone»
«Così ho filmato Olmi sul set»

Martedì era il giorno di Ermanno Olmi. Il maestro bergamasco, che ha appena compiuto 80 anni, presenta qui al Lido il suo nuovo film, Il villaggio di cartone, evento speciale fuori concorso.

di Marco Dell'Oro

Martedì era il giorno di Ermanno Olmi. Il maestro bergamasco, che ha appena compiuto 80 anni, presenta qui al Lido il suo nuovo film, Il villaggio di cartone, evento speciale fuori concorso.

Vi sveliamo qualche segreto con l'aiuto di uno dei migliori registi italiani, Maurizio Zaccaro, autore del documentario (Il foglio bianco, anch'esso alla Mostra) con cui ha seguito Olmi lungo la preparazione del film: mentre tecnici, falegnami e pittori creavano le scene e il regista sceglieva i suoi attori, la telecamera di Zaccaro riprendeva tutto. Incredibile per chi conosce la leggendaria riservatezza del regista de L'albero degli zoccoli.

Lei collabora con Olmi da 30 anni. È per questo che ha concesso proprio a lei questo straordinario privilegio? «L'aggettivo straordinario non è esagerato. In tutta la sua carriera non ha mai permesso di riprenderlo mentre lavora».

Quando glielo ha chiesto? «Finito Centochiodi, Olmi disse che non avrebbe più girato. Poi è capitato che si ammalasse, la frattura dell'anca l'ha costretto a restare a letto per 70 giorni. In quel periodo due dei suoi più cari amici, lo scrittore Claudio Magris e il cardinale Gianfranco Ravasi, l'hanno convinto a ripensarci. Io gli ho parlato della mia idea quando mi sono reso conto che il film stava per nascere».

E lui? «Ha acconsentito, ma ad una condizione precisa».

Quale? «Il patto era che non ci fosse nessuno sul set. Solo io. E una sola macchina da presa».

Come ha fatto? «C'era poco da scegliere. Non potevo portarmi una troupe dentro il suo set. Ho fatto tutto da solo. Io, il microfono e la mia macchina da presa, la meno ingombrante possibile».

Una bella faticaccia… «Credo che non esistano altri casi di documentari così, girati da una persona sola».

Olmi non ha mai mostrato segni di insofferenza? «Avevo già lavorato con lui in passato e quindi la mia presenza sul set gli è, come dire, familiare. Vale per lui, che è abituato a me, e vale per me, che conosco le sue abitudini. Vuole che le sveli un segreto?»

Certo. «Dopo qualche giorno Olmi praticamente non avvertiva più la mia presenza. Al punto che ogni tanto non rispettavo più il patto e usavo due macchine da presa, invece che una. La prima fissa, per un'inquadratura totale, la seconda, che tenevo in mano, stretta su di lui».

Olmi ha già visto il suo documentario? «Sì, certo».

Che cosa ha detto? «Ha sorriso ed ha esclamato: "Oddio, non è che parlo troppo?"».

E lei come definirebbe il suo documentario? «Didattico».

Perché? «Ho avuto la grande fortuna, quando ero giovane, di frequentare la bottega di Ermanno Olmi, Ipotesi cinema, la sua "non-scuola" di Asiago. La parola "bottega" non è fuori luogo. Eravamo come apprendisti nella bottega di un maestro rinascimentale. Ho imparato osservandolo, e quindi rubandogli il mestiere».

Una cosa d'altri tempi… «È ciò che manca al cinema di oggi. Quale grande regista si mette a disposizione dei giovani che vogliono imparare? Con il mio documentario, è come se Olmi avesse aperto la sua bottega a tutti».

Ed è questa, forse, la ragione per cui ha acconsentito che lei lo girasse… Quanto è durata la lavorazione del «Foglio bianco»? «Le riprese quattro mesi, poi tre mesi per il montaggio».

Perché ha scelto questo titolo? «Fa riferimento a una battuta di Olmi sul set: "A ottant'anni non ho nemmeno più bisogno di una sceneggiatura per girare, voglio sentirmi libero, anche di cambiare le cose all'improvviso, essere cioè un foglio bianco da riempire, lì, in quel momento". Ecco, il foglio bianco è Olmi».

Che cosa ha cercato di «catturare» di Olmi? «La sua "densità" professionale. Un giorno, per esempio, ha preso in mano un pennello e ha ritoccato un pezzo di scenografia: l'ha fatto per il puro piacere di fare il regista fino in fondo, un piacere assoluto, che riempie e definisce l'esistenza».

Quindi un documentario sul mestiere del cinema? «No, non inseguivo il cinema di Olmi, bensì tutto quello che nutre il suo cinema. A cominciare dagli incontri con le persone che lui cercava per comporre il cast: donne, uomini, bambini provenienti da Paesi lontani. È intervistando queste persone che sono riuscito a svelare i segreti di Ermanno Olmi».

A proposito di segreti. Com'è «Il villaggio di cartone», che film vedremo? «Vi sorprenderà. Lui stesso non vuole chiamarlo film, ma apologo. Grazie a lui, vedrete per la prima volta con occhi nuovi quel che davvero succede agli uomini che approdano in Italia, e non solo in Italia, per guadagnarsi il futuro».

Che occhi sono, quelli Olmi? «Occhi buoni. Questa volta si sono fermati sugli extra-comunitari, che ha incontrato uno per uno, durante il casting. E con tutti è nata un'istintiva amicizia».

Di cosa parlavano? «Ho assistito a decine di incontri al giorno, non semplici scambi di battute, ma lunghe conversazioni. Dialoghi talvolta memorabili».

Per esempio? «"E lei come si chiama?". "Olmi". "Olmi?". "Olmi, come gli alberi". "Uhmm, e di che cosa si occupa?". "Di fare questo film…"».

Marco Dell'Oro

© RIPRODUZIONE RISERVATA