Rumiz, viaggio di Europa
sulle tracce di San Benedetto

Un viaggio fra le macerie del terremoto, lungo l’antica, illustre spina dorsale d’Italia. Accumoli, Spelonga, Arquata Pretare ridotte in polvere. Poi, dall’orlo della conca di Castelluccio, Norcia. Patria del santo. Le radici appenniniche, italiche, di una resuscitazione altomedievale, di una rinascita nel centro oscuro, quasi irricostruibile, dei cosiddetti «secoli bui».

È qui che appare la statua: «San Benedetto, patrono d’Europa». È da questa apparizione che si dipana «Il filo infinito» (Feltrinelli, pagine 174, euro 15), ultimo, ennesimo viaggio, fisico e letterario, geografico e spirituale, del giornalista e nomade Paolo Rumiz da Trieste: «Fu un tuffo al cuore. Fino a quel momento non avevo minimamente pensato al Santo e al suo rapporto con Norcia, con il terremoto, con la terra madre, con il continente cui appartenevo». Un santo benedicente, simulacro intatto, in mezzo alle rovine di una civiltà plurisecolare. Il braccio levato a metà fra terra e cielo, tra tanti edifici come seduti su se stessi, significava che «l’Europa andava alla malora?». Ma proprio la sua incolumità tra tante macerie poteva mandare il messaggio opposto. Mille volte è venuto da pensare che stiamo rivivendo una stagione da Basso Impero, segnata da corruzione, pressioni migratorie, decadenza morale. Forse il santo diceva che «i semi della ricostruzione erano stati piantati nel peggior momento possibile per il nostro mondo, in un Occidente segnato da violenza, immigrazioni di massa, guerre, anarchia, degrado urbano». Forse il messaggio era che l’Europa, per tornare alle sue radici spirituali, per risollevarsi dal tunnel autodistruttivo del consumo come sola fonte di senso, aveva bisogno di una nuova grande distruzione? Da una Norcia ridotta a detriti, si dipana il filo di un viaggio attraverso le abbazie benedettine d’Europa, tra Veneto, Lombardia, Marche, Sud Tirolo, Germania, Belgio, Svizzera, Francia, Ungheria. Isole di frugalità, ricerca spirituale, silenzio, spesso assediate dal peggio della modernità. Come Viboldone, un tempo fiore che pareva cresciuto spontaneo in una campagna a perdita d’occhio, oggi oasi aggredita dal rombo degli aerei di Linate, dal fiume di macchine e camion dell’A1, dallo sferragliare dei Frecciarossa, dagli ingorghi degli officianti/osservanti dell’Ikea, o di altre cattedrali del consumo di massa.

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