«Eravamo isolati ognuno col suo dolore»

Questo spazio è dedicato ai lettori che ci hanno scritto per condividere i loro sentimenti, i progetti nei momenti di isolamento forzato per combattere il coronavirus.

Questo spazio è dedicato ai lettori che ci hanno scritto per condividere i loro sentimenti, i progetti nei momenti di isolamento forzato per combattere il coronavirus.

Ringraziamo Sergio, che condivide con i lettori la sua odissea con il Coronavirus, e le sue riflessioni sul ruolo importante della sanità.

Diario di un’odissea

Mi chiamo Sergio, ho 60 anni e vivo in provincia di Bergamo. Ho tre figli, sparsi tra Bergamo e il nord-est dell’Italia, ma siamo una famiglia molto unita.

Intorno a metà marzo, quando già tutti eravamo chiusi in casa, ho iniziato a sentirmi più stanco del solito, durante il giorno la stanchezza aumentava, ed anche la temperatura, fino ad avere febbre nel tardo pomeriggio. Mia moglie chiamava ogni giorno il medico di base che seppur da lontano provava a starci vicino e a fare la valutazione migliore possibile.

La situazione precipita

Tutto ciò fino al 27 marzo, quando il medico ci chiese di provare la saturazione. Fino ad un mese prima non sapevo nemmeno cosa fosse..., ora so che è il livello di ossigeno nel sangue. Ricordo poco di quel giorno, ora mia moglie mi racconta che la saturazione era 70, mentre la norma è tra 99 e 95.

Il ricovero quel giorno stesso, a Verona, nell’Ospedale di Borgo Trento. Sono entrato al pronto soccorso con le mie gambe e una bombola di ossigeno: ho incontrato operatori sanitari, preparati e umani ma di quella sera non ricordo più nulla. Mi hanno “preparato”, come dicono loro, sedato e intubato. Dopo 12 giorni di coma farmacologico di cui non ricordo nulla mi hanno risvegliato, il primo ricordo sono le parole di una donna che diceva: «stia calmo, è in ospedale, il più è passato». Poche parole, ma che in giorni in cui il mio corpo ha lottato incessantemente, erano di un sollievo indescrivibile.

Al risveglio non è finita

Mi sento in debito e devo ringraziare questa persona, gli infermieri e i medici che hanno creduto in quello che facevano e che fanno. Poi mi hanno estubato, ma a volte dovevo fare il casco Cpap, l’ossigeno era costantemente attaccato e le giornate non passavano. Il più era fatto, ma c’era ancora della strada da fare.

Ho cambiato quattro reparti: rianimazione, terapia intensiva, sub-intensiva e infine il reparto. È stata un’esperienza dura; come sappiamo tutti i dipendenti ospedalieri erano coperti e protetti: mascherina, occhiali, cuffia, visiera, ecc. Si sentiva solo la loro voce, si poteva capire a stento se erano donne o uomini, non saprei riconoscerli se dovessi rivederli per strada.

Ero solo, pensavo ai miei cari

Non so con chi ho parlato, se chi mi visitava mi aveva già visto oppure no. Mi sentivo solo, pensavo alla mia famiglia, non sapevo se qualcuno li teneva informati di me e io non sapevo come stavano loro.

Il giorno di Pasqua due infermiere mi hanno portato un tablet, donato al reparto di terapia intensiva in cui mi trovavo: ho digitato il numero, quando ho visto in video mia moglie e mia figlia, non sono riuscito nemmeno a trovare le parole, le guardavo e ascoltavo.

Piangevo come un bambino.

Sono giorni difficili, non sono abituato a stare fermo, la debolezza fisica e psicologica sono all’ordine del giorno, mi sentivo molto triste e ci sono momenti in cui è difficile trovare la forza. Il mio unico pensiero era tornare a casa il prima possibile, vedere i miei famigliari, vicini, amici e parenti.

Il 20 aprile mi hanno dimesso, mentre scrivo è passata una settimana, mi rendo conto di quanto l’ambiente famigliare e i cari siano una delle cure migliori, soprattutto per lo spirito!

Eravamo preparati al peggio

Tornato a casa mi hanno raccontato di come mio figlio che lavora in quella struttura ospedaliera teneva informati gli altri familiari... Mia moglie mi ha raccontato che si erano preparati al peggio, ammetto di averlo pensato anche io, le condizioni erano davvero critiche. Con l’andare dei giorni i medici vedevano che reagivo, il cuore è forte, lo stomaco digeriva l’alimentazione che mi veniva data tramite sondino. Mi raccontano ora che le giornate erano fatte di momenti aggrappate al telefono aspettando notizie, di pianti e di speranza. Anche se reagivo bene avevano paura che farmaci e terapie potessero lasciare delle conseguenze.

Eravamo isolati, ognuno col proprio dolore.

Due appelli per la sanità

Ora, con il tampone negativo e lo spirito positivo, voglio fare due appelli:

1. Ai Presidenti della Lombardia e del Veneto: basta, basta e basta con tagli alla sanità pubblica! Da buon bergamasco ritenevo la sanità lombarda la migliore, ma ho constatato che la sanità veneta non ha nulla da invidiarci.

2. Ai Direttori Sanitari e ai primari dei vari reparti: cercate di pensare un po’ meno ai bilanci e un po’ di più al vostro personale, pensate a medici, infermieri, oss e tutto il personale sanitario, ascoltate cosa hanno da dirvi perché senza di loro dove andate?

Sono loro ad essere in prima linea, a contatto con pazienti ogni giorno… Ascoltateli, dategli fiducia, ricordatevi che la loro professione non è solo un lavoro ma è una vocazione. Ascoltateli e confrontatevi con loro, confortateli soprattutto durante questa emergenza sanitaria, ma poi non dimenticate di continuare a farlo!

Voglio infine ringraziare tutti: infermieri, medici, riabilitatori, oss, chi con una parola di conforto ha saputo rassicurarmi, tutti quelli che mi hanno seguito da vicino.

Vi sarò per sempre riconoscente ed eternamente grato. Grazie anche a chi mi ha seguito da lontano pensandomi o dicendo una preghiera per me. Coronavirus 0 – Sergio 1.
Sergio Vegini

La fotografia:

IO TI BERG-AMO. «Grazie di cuore per la vostra iniziativa – scrive Mi- chela Mastrogiacomo di Osio Sotto -, ho già esposto sul mio terrazzo la bandiera allegata a L’Eco. Ho pensato poi di rendere omaggio alla mia città che adoro a dismisura, interpretando a modo mio questa bellis-sima stampa, facendone un quadro ad acquerelli. Appeso nella bache- ca del mio condominio. Continuate a starci vicini ne abbiamo bisogno»

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