«In quarantena? È una parola
che io non posso permettermi»

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IL VIDEO: La Bergamo che non avete mai visto: una città che lotta in silenzio
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Pubblichiamo la dura e cruda cronaca di una notte in un Centro per anziani, dal punto di vista di un ausiliario socioassistenziale che ci scrive. Con la speranza che - terminata questa emergenza - non torni l’indifferenza sul suo lavoro, abbracciato per scelta e svolto con passione.

Tampone, questo sconosciuto

Non c’è tempo nemmeno per la quarantena. Gli occhi vuoti cercano una carezza. Un campanello suona, c’è da svuotare il pappagallo urinale. L’igiene quotidiana garantisce dignità alla persona e impedisce la trasmissione di microrganismi.

Poi comincia la mobilizzazione in carrozzina, ma non tutti i malati possono alzarsi. Chi rimane a letto va mobilizzato sui fianchi per prevenire eritemi o piaghe da decubito. Piccoli lamenti riferiscono di dolori difficili da placare. Certo, i medicinali. Ma può molto anche la presenza fisica, lo sguardo amico, la parola di conforto.

La tivù accesa riferisce di questa terribile pandemia che spaventa. Qualcuno chiede spiegazioni, qualcun altro si rifugia in un silenzio di fede.

I parenti dei malati, di solito presenti durante la giornata e a volte polemici per la nostra assistenza giudicata superficiale e disattenta, oggi ci incoraggiano a tenere duro.

Sono più di vent’anni che lavoro come ausiliario socioassistenziale al Centro don Orione di Bergamo.

È un lavoro onestamente faticoso sia per il fisico sia per la mente, scarsamente ricompensato, sebbene noi operatori siamo tutti i giorni in contatto con feci, urina, vomito, catarro e sangue. Non manca chi urla, chi si lamenta ore e ore durante la notte. Arrivi a casa e sei distrutto.

Ma perché lamentarsi? Lo abbiamo scelto noi questo lavoro. Però se non l’avessimo scelto, la sanità sarebbe andata a rotoli. Pensiamoci.

La quarantena significherebbe paralisi. Noi abbiamo il dovere di sfidare il Coronavirus. Alcuni colleghi hanno febbre e dolori diffusi. Qualcuno riferisce di una respirazione difficile. Eppure, il tampone rimane nel cassetto.

La diffusione del contagio non potrà mai essere rallentata e poi sconfitta infischiandosene della salute di chi è in contatto quotidiano con pazienti che hanno bisogno di ogni tipo di cure. Il distanziamento sociale va a farsi benedire. La prevenzione rimane un termine campato in aria.

Un altro campanello suona. Devo andare. È il malato dell’ultima camera, vuole bere. Di solito, a quest’ora ha le labbra secche. Lungo il corridoio sento un acre odore di feci. Una signora che non si scaricava da cinque giorni, è in condizioni indescrivibili. Il lassativo per il trattamento della stitichezza ha fatto effetto.

Sono dentro la solita divisa che mi ha consegnato la cooperativa sociale per la quale lavoro; in questi giorni di Covid-19 indosso anche un camice monouso, la cuffia, la mascherina con visiera di plastica e copri calzature sanitarie. Dispongo sempre di guanti in lattice.

Quarantena? Ci sono parole che noi non possiamo permetterci. Almeno finché resisteremo.

Mi dispiace constatare che di noi operatori sociosanitari e ausiliari socioassistenziali ci si accorga solo adesso. È nell’ordinario che si dà prova di intelligenza, non quando il destino ci spiazza e ci costringe a ripensamenti etici, professionali ed economici.

Per poi ritornare tutto come prima.
Fabio Sicari - Bergamo

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