«Non siamo fatti per vivere
così lontano da chi amiamo»

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La lettera di Tecla

«Non è mai stato difficile essere un’educatrice come in questi giorni». Inizia così la lettera che ci ha scritto Tecla, che lavora con gli anziani alla Fondazione Honegger di Albino. «Avrei piacere – premette - a condividere con voi un mio pensiero scritto l’altra sera, dopo un turno particolarmente impegnativo».

«Sono sempre stata una persona piuttosto sensibile e non ho mai avuto un bel rapporto con le cose che finiscono, le separazioni, i distacchi... La morte. Non come morte in sé, ma come appunto distacco definitivo».

Odio da sempre i distacchi

«Da adolescente mi tormentava l’idea della fine, delle separazioni e non sopportavo che le cose a un certo punto potessero rompersi, distaccarsi. Mi ricordo che in quinta superiore mio papà mi regalò un libro, e sembrava parlasse esattamente del momento che stavo passando. C’è una frase in cui la protagonista parla dei distacchi: “Odio i treni che partono. Anche quelli che arrivano. Non sopporto le partenze, mi prende un groppo in gola. Non sopporto che due persone che si amano possano stare lontane. Tutto mi sembra brutto se si stacca, si divide, si saluta. Il mondo perfetto è essere uniti sempre, vicini stretti. Una follia”. Mi riconobbi immediatamente in quella follia.

E così, con il mio bagaglio di vita e la mia sensibilità, quando arrivò il momento di scegliere cosa fare da grande, decisi di studiare pedagogia. Diventai educatrice e poi pedagogista.

Dopo varie esperienze qua e là, circa sei anni fa, con il mio trasferimento a Bergamo per unirmi con il ragazzo che sarebbe poi diventato mio marito, trovai lavoro presso una Rsa. Fare, ed essere - l’educatore non è un lavoro che puoi solo fare - un’educatrice in Rsa e in un Centro Diurno Integrato, vuol dire, tra le tante cose, anche lavorare a contatto con le separazioni, i distacchi... La morte.

Ho in mente tante persone, perché sono persone prima di essere anziani, di cui mi sono presa cura, tante persone a cui ho voluto bene che se ne sono andate in questi anni. Non mi sono mai abituata. Ma come ci si può abituare alla morte?

Mai come in questi giorni mi trovo a lavorare con i distacchi. Mi trovo a fare videochiamate tra le persone che abitano la struttura e i propri familiari. Mogli, mariti, figli, sorelle, fratelli, nipoti... Mi trovo davanti a sguardi smarriti, che si sentono abbandonati, e nel mio piccolo cerco di rendere tutto più compatto, di creare prossimità.

Sono giorni che lavoro col magone e che arrivo a casa con gli occhi lucidi, abbraccio mia figlia e mio marito per cercare di sollevarmi e di non pensare troppo. Tante persone stanno morendo, tante persone fanno le videochiamate con i propri familiari, qualche volta vedendoli per l’ultima volta».

Cosa resterà di tutto questo?

«Mi domando cosa resterà, quando tutto questo sarà finito. Come sarà tornare al Centro Diurno, quando riaprirà, senza alcune persone a cui volevo bene. Come sentirò e vivrò quelle assenze, tanto da sentirle presenti. Mi chiedo come sarà tornare alla normalità, quando a tante persone queste settimane hanno stravolto la vita. Di tutto questo periodo di emergenza, io mi ricorderò gli sguardi, i sorrisi, i silenzi, le parole dette e anche quelle non dette, ma che in qualche modo possono essere ascoltate. Mi ricorderò gli abbracci che si vorrebbe tanto dare, i baci e le carezze mancate, quegli occhi lucidi di chi non capisce bene cosa sta succedendo, e anche di chi lo capisce benissimo. Quegli attimi di tenerezza, quei gesti spontanei e la difficoltà di non potersi abbracciare per dirsi che “andrà tutto bene”. Non siamo fatti per vivere lontano da chi amiamo, e questi giorni, per me, ne sono la prova. Voglio vivere in un mondo in cui essere uniti sempre, vicini stretti. Anche se è una follia».
Tecla

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