Il diabete, una malattia
subdola e senza segnali

Come curarlo. Con il passare degli anni, la ricerca medico-scientifica ha messo a punto terapie efficaci.

In tutto il mondo sono in continua crescita le persone che soffrono di diabete, nelle varie forme in cui si presenta. In Italia sono circa 4 milioni e nella provincia di Bergamo, negli ultimi 20 anni, i casi sono più che raddoppiati: oggi si contano infatti più di 60mila persone che hanno a che fare con questa malattia. In tutti questi anni però la ricerca medico-scientifica è stata in grado di mettere a punto terapie sempre più efficaci, come spiega il dottor Antonio Carlo Bossi, responsabile della Diabetologia di Humanitas Gavazzeni. Dottor Bossi, qual è la forma di diabete più diffusa e quali sono i nuovi medicinali che possono essere utilizzati per combatterla? «La forma di diabete più diffusa è quella di tipo 2 detto anche “diabete dell’adulto”.

È una forma di malattia subdola, che non dà molti segnali e per questo molto spesso ci si accorge della sua presenza solo quando si sono ormai instaurate le cosiddette “complicanze”. Per questo le azioni di prevenzione e diagnosi sono fondamentali e, da questo punto di vista, disponiamo oggi di farmaci di ultima generazione - le incretine e i farmaci glicosurici - che stanno dimostrando di essere efficaci non solo nella cura del diabete di tipo 2, ma sono anche in grado di prevenire altre malattie come infarto, ischemia cerebrale e alterazioni della funzione renale che spesso, ma non necessariamente, sono collegate al diabete».

Per quanto riguarda il diabete di tipo 1, invece, quali sono le attuali opportunità di cura? «Il diabete di tipo 1 colpisce in genere i giovani - anche i bambini nei primi mesi di vita - e consiste nell’incapacità dell’organismo di produrre l’insulina, l’ormone che regola la glicemia nel sangue. Si manifesta attraverso sintomi evidenti quali l’aumento della sete, un bisogno continuo di urinare, la presenza di infezioni, la perdita di peso, tutte situazioni che possono portare a una condizione grave che si chiama “chetoacidosi”. La cura prevede una terapia sostitutiva che consista nell’integrare l’insulina non prodotta dall’organismo». Come avviene questa integrazione? «L’insulina è un ormone che non può essere assunto per via orale perché verrebbe digerito dallo stomaco e non produrrebbe alcun effetto. Deve perciò essere immesso nell’organismo attraverso iniezioni sottocutanee. Da questo punto di vista i passi avanti fatti negli ultimi anni sono enormi.

Oggi una buona parte dei giovani con diabete può utilizzare i microinfusori, sofisticati meccanismi elettronici che permettono di integrare l’insulina secondo due modalità: in “infusione basale”, cioè in modo costante, o in “bolo”, cioè quando ci si alimenta. In pratica il paziente, adeguatamente istruito dai medici, sa quante sono le energie che possono arrivare dagli zuccheri ogni volta che si alimenta e, premendo un pulsante, è in grado di integrare la quantità di insulina che gli serve. Ma non è tutto; se c’è anche un piccolo sensore - che può essere periodicamente applicato al corpo oppure installato sottopelle nel braccio con un semplice intervento chirurgico ambulatoriale - questo può verificare in tempo reale la situazione della glicemia e comunicarla al microinfusore, formando un sistema integrato che consente di governare in automatico l’erogazione dell’insulina».

C’è poi il diabete gestazionale. In questo caso qual è l’approccio? «Questo tipo di diabete può comparire in seguito alle alterazioni metaboliche durante la gravidanza ed è in genere collegato a fattori di rischio come familiarità, sovrappeso corporeo e la concomitanza con altre problematiche come, ad esempio, la pressione alta. Il ginecologo, a inizio gravidanza, prescrive alla paziente l’esecuzione della glicemia o della “curva da carico di glucosio” che consente di fornire una diagnosi precoce per poter instaurare la terapia più adatta per la futura mamma».

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