Giovani iperconnessi
emergenza educativa

Da almeno quindici anni il fenomeno della dipendenza da Internet e dalle tecnologie digitali è allo studio di esperti in tutto il mondo. Si chiama, in termini scientifici, «retomania» o Iad, Internet Addiction Disorder. Una sindrome, che conduce all’isolamento telematico, con conseguenze individuali e sociali ormai accertate e rilevanti: ansia, aggressività, perdita della memoria, problemi cognitivi, abbandoni scolastici.

I dati preoccupanti, diffusi in questi giorni dall’Oscarv, l’Osservatorio sulla comunicazione adolescenziale tra reale e virtuale degli studenti bergamaschi, confermano il fenomeno, ormai sempre più dilagante. Sono stati accertati casi di ragazzi che toccano il cellulare fino a 110 volte al giorno e faticano a distogliersi da social e web. Due su tre non rinunciano a inviare messaggi, e a rispondere alle telefonate, nemmeno di notte o se si trovano a tavola in famiglia. Il 93 per cento di chi frequenta le medie ha in mano uno smartphone o, ancora pochissimi, un semplice telefonino; il 99,5 per cento, in pratica tutti, tra chi è iscritto alle superiori.

Le giovani generazioni sembrano rapite dal mondo digitale, come se solo attraverso l’uso delle nuove tecnologie e dei social network sentissero di poter comunicare, interagire, essere parte di una comunità, in una parola di esistere. Oggi lo smartphone è diventato come una protesi della mente e del corpo umano. Basta guardarsi in giro: ovunque si vedono persone come ipnotizzate dal proprio schermo digitale, fissato compulsando freneticamente la tastiera, per la strada, sui mezzi pubblici, ma anche, con possibili conseguenze nefaste, alla guida di un’auto. Nessuno strumento tecnologico, nella storia dell’evoluzione umana, si è mai diffuso così velocemente e globalmente. Sembra quasi che abbia soddisfatto delle necessità intrinseche, presenti nel Dna.

La rivoluzione digitale è risultata, così, una strabiliante e inattesa mutazione antropologica, tanto da ridimensionare, oscurare o fagocitare i mezzi di comunicazione già esistenti.

L’enfasi, anche a scuola, sui dispositivi digitali ha contribuito a mettere in crisi la lettura più di quanto lo fosse. Il libro, con tutto quanto comporta dal punto di vista della capacità di organizzazione cognitiva della mente dell’adolescente, resta insostituibile. Chi lo rimpiazza si assume una grande responsabilità. Qualche insegnante, finalmente, intravede i cambiamenti cognitivi e comportamentali che la tecnologia digitale produce sui propri allievi e ripensa le strategie educative.

La via d’uscita non è né l’esistenza ipertecnologica né la ritirata dalla contemporaneità. Lontani sia dagli entusiasmi degli adepti del cyberspazio sia dai toni apocalittici dei profeti di sventura, dobbiamo capire che la Rete ci sta riplasmando. La tecnologia, però, dovrebbe restare un mezzo e non diventare un fine. La responsabilità è degli educatori. Abbiamo visto nonne lasciare lo smartphone all’orecchio di nipoti ancora in culla, come se fosse un’inedita ninna nanna digitale. Con possibili rischi, tra l’altro, oltre che educativi, anche fisiologici. Sono ancora allo studio le conseguenze sulla salute causate dall’uso e abuso dei cellulari. Una storica sentenza del Tribunale di Brescia dell’agosto 2011 ha stabilito che il tumore alla testa dell’ex manager Innocente Marcolini era legato all’uso eccessivo del telefonino.

L’educazione passa dall’esempio e non dalla parola. I genitori comincino a usarlo soltanto se è strettamente necessario e non davanti ai figli. Troppi adulti, invece, come mostra splendidamente, per esempio, il film di Paolo Genovese «Perfetti sconosciuti», consegnano i segreti più intimi al cellulare, tramutandolo in una sorta di «scatola nera» della propria vita.

I giovani, per la verità, con lo smartphone perlopiù non parlano: «chattano», inviano messaggi, commentano post e immagini di amici e «follower», condividendo contenuti sui social, dove l’ignorante ha lo stesso peso dell’erudito. Democrazia, però, significa avere tutti uguali diritti, non essere tutti uguali.

Chi ha figli lo sa. I ragazzi stanno anticipando il futuro e i movimenti politici che – anche se non hanno interessi diretti nei colossi digitali – favoriscono, nei fatti, quel risultato: il declino inesorabile delle professioni d’intermediazione. I ventenni non solo comunicano e si intrattengono ma si informano, compiono acquisti e operazioni bancarie, organizzano viaggi solo ed esclusivamente on line, preparando un mondo in cui intere categorie lavorative non esisteranno più o saranno ridotte ai minimi termini. I ragazzi dovrebbero essere più orientati nella scelta degli studi. Molti corsi di laurea stanno preparando ancora figure professionali che, presto, potrebbero non esserci più. Anche se non rimarranno disoccupati, questi studenti troveranno un impiego poco attinente alla preparazione universitaria. Uno spreco di tempo, risorse ed energie.

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