Il clima prima emergenza
La politica non ignori la scienza

«Lo stato di salute del pianeta ci impone il massimo sforzo e anche di fare presto. Faremo di tutto per innalzare l’ambizione dell’Italia e per trainare gli altri Paesi». Così si è espresso il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, nell’occasione della Conferenza mondiale dell’Onu sul clima, la Cop24, a Katowice in Polonia. Si chiama Cop24 perché è la 24.a Conferenza delle Parti, ovvero degli Stati firmatari dell’Unfccc, la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Rio del 1992, la prima storica intesa per il contrasto del riscaldamento globale provocato dalle emissioni umane di gas serra.

Gli scienziati sono già arrivati alle loro conclusioni: il riscaldamento globale dipende dall’effetto serra. L’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, a causa delle emissioni dei combustibili fossili, provoca i cambiamenti climatici in atto. Fin dal 1988 fu istituito, alle Nazioni Unite, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, cui seguì la Convenzione di Rio. Gli accordi di Parigi del 2015 vorrebbero tagliare le emissioni di anidride carbonica, che alterano il clima, per mitigare il riscaldamento globale. Ora la politica deve capire che è indifferibile investire sulle energie rinnovabili per ridurre le emissioni.

Sembra, però, che i governi continuino a non capire – o a non voler capire – come i cambiamenti climatici siano la principale sfida attuale per l’umanità, come richiama Papa Francesco nell’enciclica «Laudato si’». La posizione degli Stati Uniti al recente G20 a Buenos Aires è un pessimo segnale. Nel documento finale gli Usa hanno ottenuto l’inserimento di un paragrafo in cui ribadiscono la loro uscita dall’accordo di Parigi, sfilandosi da ogni impegno, mentre gli altri Paesi confermano la necessità di una piena attuazione dell’intesa. Nel testo di Buenos Aires è stato omesso anche il legame tra le emissioni dell’uomo e il riscaldamento globale. Trump, all’indomani del recente uragano Michael, aveva affermato: «I cambiamenti climatici forse ci sono ma non sono colpa dell’uomo». Una tesi priva di fondamento scientifico.

Un drammatico paradosso, anche perché il 23 novembre scorso è stato reso pubblico, proprio dalla Casa Bianca, il rapporto sulle conseguenze del cambiamento climatico negli Stati Uniti, sia in termini ambientali sia economici. Il documento, redatto dai maggiori scienziati del clima statunitensi e ordinato per legge dal Congresso, prevede l’intensificarsi degli incendi, soprattutto nella parte occidentale degli Usa, e una riduzione di almeno il 10 per cento dell’economia del Paese entro la fine del secolo. Queste conclusioni sono in forte contraddizione con la cancellazione, perseguita da Trump, delle politiche di riduzione delle emissioni introdotte da Obama. La scelta di pubblicare l’analisi il venerdì successivo al Giorno del ringraziamento è stata interpretata dalla stampa americana come il tentativo di farla passare il più possibile sotto silenzio.

L’obiettivo dell’accordo di Parigi è il contenimento del surriscaldamento «ben al di sotto di 2 gradi» entro fine secolo. Se tutti i Paesi adottassero le misure annunciate, però, nel 2100 l’aumento della temperatura terrestre si fermerebbe a una stima di più 2,7/3 gradi. Inferiore rispetto all’impressionante 5 che si raggiungerebbe senza nessuna buona pratica, ma ben al di sopra dell’obiettivo prefissato. Parigi porta al più 2,7 nel 2100, non a 2, tanto meno all’auspicabile 1,5. L’uscita dall’accordo degli Stati Uniti, il Paese più potente e inquinante del mondo, allontana il conseguimento degli obiettivi.

L’Onu, purtroppo, non può imporre sanzioni ai Paesi che non conseguono i risultati indicati da essi stessi, ma deve limitarsi a una persuasione morale. L’Unione Europea, invece, può decidere una sanzione economica per i Paesi che non mantengono gli impegni, ma non prima del 2030.

Gli effetti del riscaldamento globale sono sotto gli occhi di tutti. Si passa da periodi estremamente secchi ad altri esageratamente piovosi. Durante il violento e tragico nubifragio, abbattutosi a fine ottobre sull’Italia, anche la Bergamasca è rimasta sott’acqua. In sole settantadue ore sono scesi 415 millimetri di pioggia, corrispondenti alle precipitazioni di cinque mesi. Bergamo, il 24 ottobre, era stata, invece, la città più calda d’Europa, con una temperatura incredibile per quel mese: 31,5 gradi. Da un record all’altro. La maggior quantità di calore nell’aria, carburante per i fenomeni atmosferici, rende le piogge più intense, più frequenti e forti le trombe d’aria, veri e propri tornado anche in Italia.

Nel nostro Paese le tre estati più torride si sono registrate tutte dopo il Duemila. Si passa da 50, 60 giorni di siccità a momenti in cui l’acqua fa danni. Non significa che piova di più. Una ricerca del Cnr mostra che, dal 1880, la quantità di pioggia caduta sul nostro Paese non è cambiata, mentre i giorni piovosi sono diminuiti del 12 per cento. Nell’ottobre scorso l’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ha chiesto trasformazioni rapide e senza precedenti per salvare il pianeta. La temperatura media terrestre potrebbe aumentare, tra il 2030 e il 2052, di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Abbiamo poco più di una decina di anni per cambiare radicalmente le nostre economie, se vogliamo mantenere gli effetti del riscaldamento già in atto entro livelli gestibili. Solo la politica può promuovere e, se necessario, imporre misure adeguate per tagliare il ricorso ai combustibili fossili, all’origine delle emissioni di gas serra. La composizione dell’aria è stata trasformata in soli sessant’anni. La soglia delle 300 parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera è stata superata alla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Oggi siamo oltre le 400. Il clima, senza emissioni, sarebbe stato costante. In pochissimi decenni, bruciando carbone, gas, petrolio, l’uomo ha determinato l’aumento di un grado della temperatura.

Non solo. Stiamo perdendo, in poco tempo, il più grande serbatoio d’acqua dolce: la metà dei ghiacciai delle Alpi è già stata divorata, mentre quelli dell’Artico hanno raggiunto la minima estensione. L’aumento del livello degli oceani colpirà le coste di tutto il mondo. L’area dell’India e del Bangladesh, dove vivono centinaia di milioni di persone, ai piedi dell’Himalaya, rischia di veder diminuire drasticamente l’acqua, la risorsa indispensabile per la vita.

Il cambiamento climatico è un processo graduale ma inarrestabile, che si può rallentare, ma non fermare. La politica, davanti a un pericolo senza precedenti all’orizzonte, non può mettere la testa sotto la sabbia invece che prendere provvedimenti. Ci sono in gioco degli evidenti, enormi interessi economici: è ovvio che ci sia un’irriducibile resistenza, da parte delle imponenti lobby del petrolio e del carbone, verso la transizione alle energie rinnovabili, che, pure, possono avere pregi e difetti. Non c’è alternativa, però, alla strada verso l’economia circolare, con energia da fonti rinnovabili, così da spingere fuori dal mercato chi non la intraprenda con decisione.

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